«Fammi felice»: è quel che ogni uomo domanda, ed è quello che Leopardi ha domandato. Alla vita e a chiunque: agli uomini e alla luna, a Dio e a Satana. Perché solo la felicità chiediamo, niente di meno. Quando, in un’operetta morale, un uomo di nome Malambruno si trova davanti il diavolo Farfarello e lo supplica di farlo felice, si sente offrire ricchezze, potere, piaceri. Non sa che farsene, perché lui, invece, vuole di più. La felicità però è un’esperienza impossibile, taglia corto Farfarello. E l’uomo rimane lì, con questo desiderio incandescente: contento, certo, per i piaceri che prova, eppure in fondo ferito da una mancanza incolmabile. Perché «anche nel momento del maggior piacere della sua vita, desidera non solo di più, ma infinitamente di più che egli non ha, cioè maggior piacere in infinito, e un infinitam. maggior piacere, perocché egli sempre desidera una felicità e quindi un piacere infinito» (Zibaldone, 4126).
Non c’è niente che possa bastare: il desiderio di felicità è troppo grande, e le risposte della realtà troppo piccole. Ammetterlo non dipende da una visione pessimistica, è un’evidenza che tutti «proviamo». Non è infatti Leopardi a rimpicciolire i piaceri: sono i piaceri a essere piccoli; non è lui ad aggiungere un’ombra alla realtà, è la realtà a essere ombrata. Il poeta non ignora la luce né l’ombra, anzi fissa la contraddizione tra stupore e delusione: contraddizione drammatica in cui la vita diventa umana. Quanto più gli occhi di Silvia appaiono «ridenti», tanto più si rivelano «fuggitivi». Inquietante destino: «la vita non è fatta che per il piacere, poiché non è fatta se non per la felicità», eppure «è imperfetta la vita, perché manca del suo fine, ed è una continua pena», ossia un «non mai interrotto desiderio e bisogno di felicità cioè di piacere. Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura?» (Zibaldone, 4087).
Una sola obiezione si potrebbe rivolgere a Leopardi: non è vero. Non è vero che il cuore anela alla felicità infinita: bisogna saper «pascersi delle piccole felicità», di modo che un uomo, «se non è felice, può crederlo, e non accorgersi del contrario» (Zibaldone, 303). La vita però lo smentisce, e torna a suscitare «pensieri immensi»: basta vedere una siepe perché torni in mente «l’eterno». Chi si accontenta di meno dell’infinito, lui sì che è veramente un pessimista: un disperato, che si dimette dal suo desiderio di felicità e si butta sulle cosucce che può arraffare. Come chi non desiderasse la cima dell’Everest, ma si appagasse di una cioccolata calda al primo rifugio, o anche al bar sotto casa, tanto è lo stesso, e andrebbe bene anche tiepida, anche di sottomarca. Chi ci ricorda quanto Leopardi che desideriamo di più? Chi ci rilancia di più verso la cima?
Ma come si arriva fin là? Perché «il fine è certo, il mezzo s’ignora» (Zibaldone, 4228). E quando Silvia muore, perdiamo anche «la speranza de l’altezza»; se poi solleviamo gli occhi lucidi alla luna, lei tappa ogni domanda col suo mutismo assordante. Chissà quante chiamate senza risposta troverà la Natura, quando riaccenderà il telefono!
Qui potrebbe chiudersi la partita: la Natura è matrigna, l’infinito è un prodotto dell’immaginazione, la felicità è negata all’uomo, siamo destinati al nulla, non ci resta che divertirci. Ma come si fa a chiudere i conti che Leopardi non ha mai chiuso? Come si fa a prendere 177 punti interrogativi nei Canti e 418 nelle Operette morali e far finta che siano affermazioni? Colpa grave, perché a discettare sul pessimismo e sul titanismo è solo chi non ha mai letto Leopardi, e ripete i riassuntini dei manualetti: cuori minuscoli che si permettono di incollare un’etichetta sopra il genio. E insinuando un pregiudizio su di lui, ne insinuano uno ancor più pesante sulle domande che inondano segretamente il cuore di ognuno: “sarò fatto male io, che desidero così tanto?”.
Leopardi, invece, proprio al culmine delle sue «malvage analisi» rimette la palla al centro: ricominciando a domandare. Forse non c’è poeta che abbia premuto tanto sul pedale dell’acceleratore del desiderio di felicità, di quel desiderio che è «compagno inseparabile dell’esistenza» (Zibaldone, 175). Inseparabile, perfino nella disperazione: ché quando qualcuno sentenzia che «tutto è male» lo fa, in fondo, perché spera che, dicendolo, starà meglio. Ma del tutto meglio non sta, e il problema rinasce.
Tra le milioni e milioni di parole che Leopardi ha scritto, ne manca giusto una, ed è “pessimismo”. Senza il supporto di alcun riferimento testuale gira la più grande bufala sul suo conto. O meglio: una sola volta l’ha usata, verso la fine dello Zibaldone, ma solo per parlarne male. In un’osservazione che sgorga dall’abisso più buio: «Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male». Non si può immaginare di risalire da questo sprofondamento. E invece, con un’energia insospettabile, eccolo a sostenere che non è giusto sostituire «all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?»(Zibaldone, 4174).
Leopardi è un poeta interrogativo: non sentenzia che la Natura è matrigna, ma le urla: «perché non rendi poi / Quel che prometti allor? perché di tanto / Inganni i figli tuoi?». È una domanda, non una sentenza. E poco dopo insiste: «Questo è quel mondo?». Mette un punto interrogativo, non un punto fermo: non è cinismo, è struggimento (possibile che sia tutto qui? eppure presentivo chissà quale vita: possibile che sia tutto azzerato?).
Perfino tra la Natura e l’Islandese l’ultima battuta è una domanda: «a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?». Neanche le tombe placano l’implorazione: «Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre / Di strappar dalle braccia / All’amico l’amico, / Al fratello il fratello, / La prole al genitore, / All’amante l’amore; e l’uno estinto, / L’altro in vita serbar?». Siamo fragili, ma chissà perché non ci arrendiamo: «Natura umana, or come, / Se frale in tutto e vile, / Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?».
La prima strofa del Canto notturno è un bombardamento di interrogativi («Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / Silenziosa luna?», «a che vale / Al pastor la sua vita, / La vostra vita a voi? dimmi: ove tende / Questo vagar mio breve, / Il tuo corso immortale?»), seguita da due strofe di risposte inequivocabili: non vale la pena nascere, perché si muore. A questo punto, la poesia potrebbe concludersi. Ma non c’è risposta che spenga la domanda, e il canto si riapre, quando il pastore si riaccorge del «tu» della luna, e torna a tempestarla di domande: «a che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito seren? che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?».
Non c’è punto fermo che tenga: la forza di quelle domande sta nella loro insopprimibilità, qualunque idea si sforzi di smorzarle. Forse proprio il coraggio di non farsi sconti sull’infelicità ha permesso a Leopardi di sentire che il pessimismo sarebbe la conclusione più inaccettabile. Perché la vita è scritta col punto interrogativo: «Cosa è dunque la felicità, mio caro amico? e se la felicità non esiste, cos’è mai la vita?». Su di lui aveva ragione Carlo Bo: «esiste la verità nell’interrogare, non già nel rispondere».