Domenica scorsa, 18 ottobre, papa Francesco ha proclamato santi i coniugi Louis Martin (1823-1894) e Zélie Guérin (1831-1877): i genitori di santa Teresina di Lisieux, l’ardente monaca carmelitana morta a soli ventiquattro anni, patrona delle missioni e dottore della Chiesa.
Il senso che si racchiude in questa catena di santità fiorita nella Francia della Restaurazione e del trionfo dello spirito “borghese”, dalle retrovie delle periferie che gravitavano intorno alla Ville Lumière lanciata verso le punte del più ardito progresso moderno, e che oggi ci viene riproposto attraverso il sigillo della canonizzazione concessa dall’autorità della Chiesa, ha strettamente a che fare con niente di meno che la vocazione di tutti i credenti alla santità.
Louis e Zélie sono stati un uomo e una donna che, insieme, unendo le loro esistenze, si sono identificati con la fedeltà alla scelta matrimoniale accolta come stato di vita in cui incardinare la loro sete ideale di perfezione. Hanno sperimentato fino all’ultimo la nobiltà del vincolo coniugale (a conferma di questo, ci restano le loro suggestive Lettere familiari, che documentano l’intensità di un affetto e la serietà di una responsabilità verso il mondo vissuti alla luce di una devozione immersa fin nei particolari più banali del quotidiano). Naturalmente si sono cimentati nella fatica del lavoro quotidiano, come tutti: lui orologiaio, lei ricamatrice di merletti e donna di casa. E dal loro legame hanno visto scaturire il dono della nascita dei figli, li hanno accompagnati nella malattia, nelle prove dolorose di un cammino non facile, per le cinque ragazze arrivate all’adolescenza accettando lo strappo di un ingresso nella vita religiosa che le allontanava per sempre dal calore degli ambienti domestici, ma le metteva in rapporto con una strada in cui il primato di Dio diventava orientamento facilitato e regola preziosa di sostegno (tre si fecero carmelitane come la più giovane, Thérèse; una, suora della Visitazione).
Riconoscere un modello esemplare nella vita di due cristiani così, in cui la grande maggioranza di tutti noi può ritrovare i segni delle medesime circostanze che fissano il percorso della nostra comune avventura umana (sia pure in contesti e forme di mentalità radicalmente cambiati), significa che questo ideale di santità può essere proposto come meta per tutti.
Certo, bisogna intendersi sul significato di questa parola antica, oggi così poco politicamente corretta. Se la santità è ridotta ai vertici estremi della proiezione nella sfera del soprannaturale, come il privilegio strano di superuomini sollevati dalla condizione di semplici mortali e trascinati in un vortice di estasi e visioni, tra macerazioni e sofferenze eroiche, attratti dalla forza di un Assoluto che divorava e inglobava in sé ogni minima fibra di creature colpite dall’effusione di una grazia straordinaria, allora diventa difficile vederla come un traguardo desiderabile e prima ancora abbordabile, aperto all’ascesa dell’uomo qualunque.
Ci sarà certamente bisogno, come è sempre stato nei secoli della storia cristiana, anche di questa santità spinta fino al limite dell’eccezionale, che rimette direttamente in comunicazione il mondo paradisiaco del divino e il mondo terreno della nostra vita finita.
Ma la santità, prima ancora di scatenare prodigi e guarigioni mirabolanti, è il miracolo di una fede portata dentro il flusso reale dell’esistenza, messa a contatto con la realtà globale di ciò che siamo: è l’amore di Cristo che diventa presenza vissuta, memoria che accompagna dentro la povertà dell’istante, qui e ora, fino a imporsi come lo sguardo che un individuo, limitato e carente al pari di ciascuno di noi, può gettare su di sé e con il quale abbracciare le cose, le persone, i doveri di ogni singola giornata. Forse si potrebbe dire che la santità è una vita resa nuova, cambiata alla radice, nel suo corso abituale; dove la certezza della speranza e la paziente tenacia della carità cristiana lievitano generando il senso di una pace e di una letizia ultimamente invincibili, e così diventano luce, positività, apertura alle dimensioni dell’infinito, semplicità gratuita, dedizione, innocenza e slancio fiducioso come nell’abbandono senza pretese di uno spirito veramente bambino. Anche quando ci si ritrova carichi di anni e con tanti pesi ingombranti sulle spalle. Anche quando ci trova a dover passare attraverso croci e sofferenze come la perdita di un figlio, la malattia, la morte precoce. Anche in una condizione di dissesto o di espropriazione come quella con cui soprattutto Louis dovette fare i conti nella sua vedovanza, colpito nella fragilità del suo cuore oltre che nel pieno equilibrio della salute mentale.
La vicenda dei coniugi Martin, all’ombra di quella ancora più clamorosa della piccola Teresa, contiene poi un’altra lezione fondamentale: per incamminarsi sulla strada della vocazione a una fede cristiana capace di trasfigurare il cammino concreto dell’esistenza, in senso totale, non occorrono competenze superspecializzate, studi approfonditi nelle scienze sacre e chissà quali capacità per emergere come figure di primo piano sulla scena del mondo. La santità della semplicità disarmata, dell’umile povertà di spirito offerta come dono per tutti, comincia dal piccolo e si realizza nella normalità assolutamente più ordinaria: è alla portata di tutti, non riserva di caccia esclusiva di una oligarchica aristocrazia di spiriti eccelsi.
La santità dei Martin risplende dentro ciò che è più umano e più comune. Passa esattamente per la stessa “piccola via” a cui Teresa del Bambino Gesù e del Sacro Volto avrebbe legato la sua cifra di santa madre del nuovo cattolicesimo moderno: per sfondare la prigione che delimita il confine dell’esperienza umana, per riscattarla e farla fiorire dal di dentro, basta aderire con tutto quello che siamo all’umile realtà oggettiva in cui si consuma, giorno dopo giorno, il nostro grandioso destino di vocazione e di servizio.