Pier Paolo Pasolini moriva ucciso presso l’Idroscalo di Ostia tra la notte del 1° e 2 novembre 1975. Enzo Biagi, nella trasmissione Rai “Terza B, facciamo l’appello” del giorno successivo, lo ricordava così: “Era un uomo generoso, tormentato e semplice. Nel fondo della sua natura c’era una grande innocenza, era una creatura indifesa. La sua fine sembra una storia scritta da lui. Lui si ritrova ucciso da un personaggio che appartiene ai suoi tristi eroi”, gli eroi di Ragazzi di vita, “in una notte d’autunno, piena di ombre”.



Perché parliamo di “profezie”? Perché un autore “moderno”, dalla grande capacità di ascolto e sensibilità “moderne”, è anche “attuale”?

Perché Pasolini, nell’Italia di quarant’anni fa, con lucidità senza pari coglieva — nelle strade e non nei salotti letterari perché, diceva, “basta soltanto uscire per strada per capire i cambiamenti, e per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla” (Scritti corsari, 1975) — l’opulenza omologante della globalizzazione ante litteram, l’identificazione impropria del “benessere” con lo “sviluppo”, produttore di beni superflui, che avrebbe portato a quel “genocidio” culturale di cui Marx parlava nel Manifesto: il passaggio da una cultura arcaica all’organizzazione moderna della “cultura di massa”. Era quello un fenomeno di “mutazione antropologica”, la cui omologazione culturale riguardava tutti: popolo, borghesia, operai e sottoproletari (ivi, pp. 41-42). La nuova cultura che nasce non è più ecclesiastica, moralistica e patriottica; essa è strettamente legata alla propaganda televisiva, qualunquistica, il cui linguaggio sempre ex cathedra rispetto allo spettatore, è un “linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento” che riprende quello nella realtà (ivi, p. 59). 



E’ proprio nell’ultimo Pasolini, quello di Scritti corsari, Lettere luterane e del romanzo incompiuto Petrolio, che emerge ancor di più il nesso tra le idee e il proprio vissuto. Scrive il saggista bolognese: “A causa della mia vita personale, della scelta che ho fatto sul modo di trascorrere i miei giorni e di impiegare la mia vitalità e i miei affetti, fin da ragazzo, ho tradito il modo di vita borghese (a cui ero predestinato). Ho trasgredito ogni norma e limite. Ciò mi ha fatto fare esperienza — un’esperienza concreta, reale e drammatica —dell’universo che si estende sconfinato, sotto il livello della cultura borghese. L’universo contadino (di cui fa parte il sottoproletariato urbano); e anche quello operaio […] che appartiene alla cultura popolare. Ho aggiunto, alla mia esperienza esistenziale, anche degli interessi specifici. Cioè linguistici, per esempio. Ma anche etnologici e antropologici. Non ne ho un’informazione scientifica; ma ne ho la conoscenza” (Scritti corsari, pp. 211-212).

Scritti corsari — superba raccolta di articoli dello scrittore pubblicati tra il 1973 e il 1975 sul Corriere della Sera, e ancora su Il Mondo, Rinascita, L’Europeo, Panorama — sono la constatazione amara della realtà italiana degli anni Settanta a cui Pasolini oppone comunque, nelle righe, il suo rifiuto. Il suo sguardo verso il mondo ha un che di religioso, non confessionale, inappagato; il suo definire le cose sempre “per ossimoro”, per opposizione non dialettica, irrisolta, lo porta a vivere come “consumista” critico ed atipico, dovendo egli stesso scrivere, fare film, vestirsi. 

“Ma — diceva — io produco una merce che è in realtà inconsumabile: la poesia”, che rimarrà anche dopo la morte del poeta, dell’editore, del lettore. E aggiungeva: “Per me il consumismo è una tragedia, che si manifesta come delusione, rabbia, taedium vitae, accidia e, infine, come rivolta idealistica, come rifiuto dello status quo” (ivi, p. 107).

Il corsaro uscito sul Corriere della Sera il 1° marzo 1975 con il titolo «Non aver paura di avere un cuore» è certamente esaustivo. Il cuore, nella nuova società dei consumi, è ridotto a nient’altro che un muscolo, in una totale “mancanza del senso della sacralità della vita degli altri” (ivi, p. 127). Era l’Italia delle stragi politiche, del vuoto di potere, quella in cui i valori del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, paleoindustriale — Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità — non contavano più (ivi, p. 130). Il Nuovo Potere (con la P maiuscola, quasi avesse, lo dice lo stesso regista, un carattere “misticheggiante”) non è più “clerico-fascista, non è più repressivo. […] Esso ha portato al limite massimo la sua unica possibile sacralità: la sacralità del consumo come rito e, naturalmente, della merce come feticcio (ivi, p. 126). 

Ne esce un Pasolini “ossessionato” dal “bifronte mostro consumistico” (ivi, p. 200), per cui tutti “devono” avere un’automobile che riduca le distanze e le “differenze”, e tutti “devono” essere in coppia. Si profila, dissacrante e conservatore, il volto bianco del nuovo potere, tirannico e al tempo stesso falsamente tollerante, determinato a trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi. Avviene così, nella requisitoria pasoliniana, l’incontro tra giovani “disadattati” sottoproletari — nevrotici, incapaci di allegria, afasici, imitatori di lingue altrui — con giovani borghesi in violenta polemica con la propria classe — anch’essi nevrotici, incapaci di allegria, “utenti di una lingua come imparata a memoria” (ivi, p. 164). Alla cultura popolare “astorica”, conservatrice di se stessa, “fissatrice” di un codice che non ha un inventum evolutivo perché non ha possibilità di infrazioni, non rimane che essere relegata dalla cultura borghese in una specie di riserva, nella quale, tuttavia, “democraticamente”, le viene data la possibilità di “contribuire” alla cultura del paese, di entrare a far parte dell'”acculturazione” univoca (che riduce a “culturame” le realtà particolari) solo se è capace di ottenere una “promozione” sociale: accettare e far propria cioè la “cultura” della classe dominante (ivi, p. 211).

E’ questa, per Pasolini, una forma nuova “totale” di fascismo, che non distingue più: non distingue più giovani a favore del divorzio, della liberazione della donna, dello sviluppo in generale, dagli altri, perché tutti compiono atti identici (che sono culturali), tutti parlano lo stesso linguaggio del corpo e un linguaggio verbale completamente convenzionale ed estremamente povero (ivi, p. 47). La novità rispetto al passato è che questi atti culturali e questo linguaggio somatico sono “interclassisti”: non si potrà più distinguere per esempio in una piazza, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista. 

In fondo il potere “totalitario” del vecchio fascismo non aveva minimamente “scalfito” le realtà particolari dell’universo agricolo e paleoindustriale. Nel nuovo fascismo invece il fine è “la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo” (ivi, p. 50), in una civiltà dei consumi propria dei “regimi democratici” contemporanei, con una ferocia non paragonabile perfino a quella del Ventennio, come testimonia il celebre “discorso” di Pasolini sulle dune di Sabaudia del 7 febbraio 1974, tratto dal breve documentario Rai della serie tv “Io e …”, intitolato “Pasolini e… la forma della città”.

La nuova civiltà dei consumi, irreligiosa perché ha perso il desiderio di Dio, ha ancora però bisogno della famiglia, quella che era stata per secoli il modello, insieme, dell’economia contadina e della civiltà religiosa. Nel neo-edonismo completamente materialistico e laico, la famiglia diventa lo “specimen” minimo della civiltà consumistica di massa. “Un singolo — nella visione pasoliniana — può non essere il consumatore che il produttore vuole. Cioè può essere un consumatore saltuario, imprevedibile, libero nelle scelte, sordo, capace magari del rifiuto: della rinuncia a quell’edonismo che è diventato la nuova religione. Esso deve essere sostituito con l’uomo-massa. […] E’ in seno alla famiglia che l’uomo diventa veramente consumatore” (ivi, p. 36).

Oggi le profezie di Pasolini “corsaro” si sono avverate: il consumismo esasperato, la comunicazione “totale” dei social networks dal linguaggio convenzionale, omologato, fruibile solo in un mondo online in cui viene meno l’importanza dell’incontro “fisico” con l’altro, la mancanza della percezione che il “tu” è importante, facendo accrescere solitudini. Profetico è stato anche quel senso del “sacro” che lo scritture bolognese aveva colto nella poesia, antidoto al nulla. Oggi, in uno scetticismo generale, i giovani non sono a priori restii a cogliere “il religioso” come opzione, non sono restii a farsi domande. In quel domandare, in quel travaglio che è stata la propria esistenza, Pasolini è più attuale che mai.