L’Espresso, in occasione dei suoi sessant’anni, si mette in vetrina. Il settimanale elmetto e moschetto, che ha raccontato con le sue grandi inchieste il dopoguerra italiano e ha sdoganato la sinistra progressista come forza di governo, celebra l’anniversario con una mostra al Vittoriano. Protagonista indiscusso di questa vicenda è Eugenio Scalfari, 91 anni, giornalista ed editore, padre del giornalismo italiano, che, lasciata la professione del cronista, ha assunto, da circa vent’anni, quella del padre nobile. Per la verità, sin da giovane Scalfari ha sempre avuto la vocazione ad essere un opinion leader, sin da quando collaborava per L’Europeo diretto dall’amico Arrigo Benedetti. Forse a guardar bene la vocazione di costruttore di idee il giovanotto l’aveva già quando collaborava con la rivista romana dei Guf (Giovani universitari fascisti) e per aver insinuato, senza prove sicure, intrallazzi nella gestione dei terreni dell’Eur fu prima convocato dall’allora vicesegretario del Pnf, Carlo Scorza, e poi degradato ed espulso dal corpo. Quando nacque l’Espresso, nel 1955, lui assunse la carica di direttore amministrativo, mentre la guida giornalistica venne presa da Benedetti, cronista che si era fatto le ossa con Longanesi a Omnibus, nel 1939 e con la creazione dell’Europeo



La novità editoriale del dopoguerra fu rappresentata proprio dall’Europeo, con un giornalismo d’inchiesta che spaziava dalla nera, alla politica, al costume e che fece dimenticare le veline di regime. Dopo che la testata passò nelle mani di Rizzoli, Benedetti, per alcuni il vero inventore dei rotocalchi, rimase senza la sua creatura e quindi si mise a progettare un nuovo giornale con cui continuare l’esperienza che gli aveva dato autorevolezza e notorietà. Le cronache raccontano che assieme a Scalfari si mise a cercare un imprenditore che potesse finanziare il nuovo giornale. I due lo trovarono nell’industriale Adriano Olivetti, che prima propose loro di fare un quotidiano la cui proprietà doveva essere a metà con Enrico Mattei, il patron indiscusso dell’Eni, e poi scelse di affidare alla coppia un nuovo settimanale. 



E così, al n. 12 di via Po a Roma, come ha raccontato Carlo Gregoretti sul Foglio, si insediò la redazione dell’Espresso, costruita per buona parte da giornalisti provenienti dalla rivista Cronache, il cui direttore era finito in galera per una storia di violenza carnale. Scalfari, che aveva redatto il piano industriale, si occupava della direzione amministrativa e scriveva di economia mentre Benedetti rilanciò e precisò la sua idea maturata all’Europeo, ma con meno cronaca nera e con in più delle inchieste graffianti che dovevano contraddire la classe dirigente “per non indulgere ai suoi vizi tradizionali e magari facendola soffrire”. 



Nacquero così i grandi reportage tra i bodoni (i caratteri aggraziati del tipografo parmense del ‘700, usati per titolare gli articoli di cultura e arte) e i bastoni (più rigidi e quindi più adatti alla cronaca e alla politica). Nell’editoriale del primo numero, uscito il 2 ottobre 1955, venne invocata l’indipendenza della testata dalla politica e dal proprietario, ispirandosi al modello di Time e dell’Economist, che utilizzavano un comitato di garanti con potere di nomina e revoca del direttore. 

Come al Mondo di Mario Pannunzio, con cui Benedetti e Scalfari si confrontavano quotidianamente, le grandi firme non mancarono e impreziosirono l’elenco dei collaboratori. Benedetti diresse con cura maniacale il suo settimanale che divenne presto un punto di riferimento per un pubblico di stampo laico, che guardava con interesse alle posizioni progressiste. Il suo giornale raggiunse le 120mila copie, un risultato che teneva in pareggio il bilancio. Ha fatto storia il formato lenzuolo con un apparato fotografico curato e regole di impaginazione che miravano al massimo equilibrio. 

Benedetti era un liberale, non conservatore e per l’amicizia con il conterraneo Pannunzio confluì nel gruppo che staccatosi dal Pli dette origine al Partito radicale dei liberali e dei democratici. Scalfari fu anch’egli tra i fondatori del partito, ma era anche uomo di mondo e si era ben inserito nella borghesia illuminata di stampo laico. Aveva tra l’alto sposato Simonetta De Benedetti, figlia di Giulio, direttore della Stampa dal 1948 al ’68. Le conoscenze di quel giovane promettente erano variegate, tanto da entrare nel giro di Raffaele Mattioli, gran patron della Comit, di Ugo La Malfa, di Bruno Visentini, Leopoldo Pirelli e di grandi intellettuali come Strehler, Bo, Montale, Elena Croce. Il cosiddetto “salotto Comit” gli permise di crescere e l’ex fascista e monarchico divenne un liberale di sinistra a contatto con l’eredità dello scomparso Partito d’Azione. 

Benedetti rimase all’Espresso sino al 1963, anno in cui volle tornare alla sua prima vocazione, i romanzi, e così Scalfari, che nel frattempo aveva assieme a Caracciolo, cognato degli Agnelli, acquisito una quota della società, divenne il direttore. In quegli anni si legò con la corrente di sinistra del Partito radicale e da qui inizia il divorzio con Benedetti che sfocerà in una completa rottura nel 1967. Lo spirito aggressivo e ideologico della testata si intensificò e le grandi inchieste, soprattutto volte a scardinare i legami conservatori tra il potere politico e i ceti dirigenti della repubblica, anticiparono la fisionomia di un organo di stampa che conduce battaglie proprie, che propone temi da comunicare alla pubblica opinione. Insomma un soggetto attivo, che negli anni settanta, con la nascita di Repubblica, si concretizzerà nel progetto del giornale-partito. 

Eugenio Scalfari si legherà sempre più al Psi e dopo una delle inchieste più memorabili, quella sul generale De Lorenzo e il Sifar, lascerà la stessa direzione per diventare deputato. Il ’68 andò a braccetto con la cultura radicale e socialista del patron del settimanale, ma l’Espresso seppe comunicare alla borghesia progressista la possibilità di diventare soggetto egemone, una volta che i clerico-democristiani avessero perso posizioni. Insomma la laicizzazione andò a braccetto con la salvaguardia dei diritti civili e con il femminismo più radicale e l’antiautoritarismo fu trasformato in antifascismo militante, permettendo lentamente che le leve del potere passassero nelle mani di quel capitalismo democratico e illuminato non più legato a filo doppio alla Dc. 

Successivamente il piccolo settimanale, sotto la spinta della rivoluzione culturale degli anni 70, favorendo lo sdoganamento delle forze progressiste, secondo molti ebbe la funzione di legittimare definitivamente il Pci, che con la terza via di Berlinguer aveva inventato la versione europea, non sovietica, al socialismo occidentale. In questo tempo di avanguardia arrivarono anche i soldi, che all’Espresso non si erano mai visti. Nel 1973 Scalfari e Caracciolo imposero il formato magazine, che fece schizzare le vendite sino a 350mila copie con un miliardo di utile. Quei soldi e quelli degli anni successivi permisero al giornalista editore di costruire e lanciare Repubblica, il quotidiano che lui è Benedetti non erano riusciti a realizzare nel 1955.