Pier Paolo Pasolini, morto quaranta anni fa, continua a stravolgerti lo sguardo sul mondo. Se lo leggi, non puoi più essere come prima. Prendi gli Scritti corsari e le Lettere luterane e ti sconvolgi capendo quanto il potere ti condiziona. Tu, quando pensi al potere, parli di politica, di soldi e di armi, e lui ti fa rendere conto che esiste invece un «”Potere” con la P maiuscola», e non si sa bene chi ce l’abbia in mano: sappiamo però che Lui, il Potere, ci tiene in mano tutti. Ti guardi intorno, in una piazza, e d’un tratto l’«omologazione» ti fa male: non c’è più nessuna differenza «nel modo di vestire, nel modo di camminare, nel modo di esser seri, nel modo di sorridere, nel modo di gestire, insomma nel modo di comportarsi». Luogo comune quando è un commento sugli altri, scoperta terrificante «quando lo vedi anche» su di te, come cantava Giorgio Gaber: «su come parli, cosa canti, come ti vesti, sui tuoi bisogni, sulle tue scelte, sui tuoi gusti».
Alzi gli occhi dalle pagine di Pasolini e finalmente vedi. Vedi quello che avevi sempre visto e che non avevi mai visto. Incroci i ragazzi per strada, e le loro «motociclette da guidare come piccoli idioti arcangeli con dietro le ragazze ornamentali», ostentate come trofei. Che male c’è? Così si fa, «chi non è in coppia non è un uomo moderno, come chi non beve Petrus o Cynar». Un braccio cinge una spalla: ci sei abituato, sono gesti naturali; leggi Pasolini e scopri che invece sono «atti culturali», copiati. Dalla televisione, innanzitutto, che è «il luogo dove si fa concreta una mentalità». Ti sentivi libero col tuo telecomando, e ti ritrovi in una trappola «autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo» (come siamo diventati creduloni nell’iperdemocrazia della rete!). Quello che devi fare, infatti, la tv non te lo suggerisce con un «linguaggio verbale», ma te lo rappresenta con il «linguaggio del comportamento»: che tu vedi e imiti, «di sana pianta, senza mediazioni». Nessuno, nessuno è impermeabile al «linguaggio pedagogico delle cose»: anzi, chi si sente al riparo dai condizionamenti è il prodotto perfetto del potere, perché non solo fa quel che non ha scelto lui, ma si è dimenticato che non l’ha scelto lui. Come non puoi infilare una mano nel fango senza sporcarti, così non puoi vedere niente senza rimanerne influenzato. Prima tenevi la televisione accesa senza darci peso: ora sai che qualcosa ti rimane per forza addosso. Non tanto le idee, su cui puoi anche dissentire, ma un orizzonte: ormai piace anche a te un po’ di benessere, un po’ di bella vita, un po’ di denaro da consumare. Sei moderno, ce l’hai nel sangue il bisogno di sistemarti. Puoi continuare a riempirti la bocca con le tue idee, ma intanto l’anima te l’hanno presa.
Non è sul piano ideologico che il potere fa leva, ma su quello del puro vissuto. Per questo la gente continuava ad andare in chiesa, ma poi votava per il divorzio e per l’aborto: di fuori era ancora cristiana, ma nell’anima era già edonista, borghese. Colpa del tanto innocuo «Carosello», che ogni italiano seguiva coi bambini prima di andare a nanna: «come polli d’allevamento, gli italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere». Ed eccoci mollicci davanti alle sfide di ogni giorno, come le flaccide natiche spalmate sui nostri comodi divani, tanto ripieni di superfluo da non aver più bisogno di santi né di eroi: «la società permissiva non ha bisogno che di consumatori». Litigassero pure, l’operaio e lo studente, l’imprenditore e la casalinga, il fascista e l’antifascista: hanno le stesse voglie, gli stessi sabati. Nessun Mussolini è mai stato tanto fascista quanto il nostro permissivismo: si può fare tutto, e perciò guai a chi non lo fa! Mai nessun potere era entrato fino alla stanza da letto, aveva già conosciuto i nostri pensieri prima che arrivassero sulle nostre labbra, fino a decidere come dobbiamo festeggiare il compleanno o di cosa parlare il lunedì mattina: «Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…».
Sarebbe semplice cavarsela, se l’attacco fosse sferrato soltanto attraverso i mass media. Il problema è che «il potere non è fuori da quei giovani che si fanno umiliare, è anche in loro». Pasolini lo scriveva al suo Gennariello, ma a ogni quindicenne si può ripetere che i suoi coetanei sono i suoi «più importanti educatori», i principali veicoli dell’omologazione: «hanno in mano un’arma potentissima: l’intimidazione e il ricatto». Prova a non essere come tutti, se hai coraggio! Prova a entrare da solo il giorno di uno sciopero, prova a non uscire un sabato, prova a non essere fidanzato, prova! Mamme in crisi, consigli di classe allarmati, psicologi alla porta… Un ragazzo vede che i suoi amici «vivono esistenzialmente valori nuovi», si sente «schiacciato da tale “novità”: ed è questa “novità” — che tu temi di vivere imperfettamente, mentre la vedi vissuta perfettamente dai tuoi compagni — che costituisce il nucleo della tua ansia di apprendere». Capisci come mai ti era capitato l’insincerità, l’emulazione mai giudicata di ciò che fanno tutti, quell’«ansia di integrazione e qualunquismo» in base alla quale, per farsi accettare dagli altri, bisogna pur rinunciare a qualcosa, senza mai peraltro arrivare a essere come gli altri vogliono né aderendo più a come si è.
Stai per chiudere i conti, e Pasolini affonda nell’origine del disastro umano: «i figli che nascono oggi non sono più aprioristicamente “benedetti”», tant’è che non se ne fanno quasi più (altrimenti come faremmo, noi adolescenti quarantenni, ad andare la sera al cinema?). Quelli che vengono al mondo crescono fin nel ventre materno con «il sentimento inconscio di essere “a carico” e “in più”. Ciò non può che aumentare immensamente la loro ansia di normalità». Chi si sente amato fa quel che vuole, non ha bisogno di omologarsi, ma chi si sente di troppo non ha altro modo per tenersi a galla: e quanti studenti, la mattina in classe, si sentono desiderati? Un ragazzo, «se intuisce di non essere veramente desiderato, o, peggio, se intuisce di essere indesiderato, si ammala». È questa malattia la ragione per cui diventano «così tristi e infelici»: chi non è voluto diventa triste; e chi è triste diventa cattivo. Infatti «i casi estremi di criminalità derivano da un ambiente criminaloide di massa». Perciò, anziché scandalizzarsi dei casi estremi, serve guardare in faccia l’ambiente che è complice di questo sentirsi «in più»: si chiama scuola, si chiama televisione. Due proposte precise contro la criminalità: «1. Abolire immediatamente la scuola media d’obbligo. 2. Abolire immediatamente la televisione».
Più che agitarsi, si tratterà di educare: «educare, sarà questo forse il più alto — ed umile — compito affidato alla nostra generazione». Educare la «generazione sfortunata», che venendo al mondo ha trovato «chi rideva della tradizione», e che perciò non si è mai commossa per un battistero o per un’ottava del Cinquecento: «forse non saprai neanche riandare / a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto»; educare questi uomini «convinti di essere sazi di tutto ciò che la nuova società offre loro», questi ragazzi che «si vergognano della luce dei loro occhi», mirando come a una conquista al cinismo stampato negli occhi dei più scaltri.
Educare a cosa? A «non temere di essere ridicolo: non rinunciare a niente»; a non aver paura di quel «qualcosa di buio in cui si fa luminosa / la vita: un pianto interno, una nostalgia / gonfia di asciutte, pure lacrime»; a non aver paura di riconoscere che «manca sempre qualcosa»; a non lasciar marcire nelle «buie viscere» quel «represso gemito / di cui non si sa, di cui non si dice». Basterà? Sembra un puntino impalpabile nel mare magnum del potere che ci omologa, eppure l’unico vero argine al diventare come tutti è lo splendere di un io che non reprime i suoi gemiti, che sa ancora piangere, che non ha più paura «di avere un cuore».