A quarant’anni dalla sua tragica morte, la figura e l’opera di Pier Paolo Pasolini continuano ad essere oggetto di polemiche e feroci controversie. Anche quando se ne risaltano i giudizi profetici nella visione della nostra attuale società, dei suoi costumi o comportamenti di massa, la sua opera rimane ultimamente disconosciuta, perché non corrisponde ad una certa idea di letteratura, idea resa canonica da altri autori (lo stesso Moravia, ma soprattutto Calvino). Eppure Pasolini è l’autore italiano attualmente più conosciuto, studiato e tradotto nel mondo. Come pochi altri intellettuali ha saputo leggere quei cambiamenti della società nella prospettiva di una tragica omologazione per cui tutto viene mercificato e ridotto a nulla, le cose e l’uomo, Dio stesso e la persona, i suoi problemi e le sue domande, tutto è ridotto su un medesimo livello. Pasolini, con la sua opera, ha cercato di opporsi a tale riduzione, creando un mondo poetico e vivendo nella propria carne la sofferenza e le domande più profonde dell’esistenza. In tale posizione appare, con Dante e Leopardi, come l’ultimo grande intellettuale della nostra tradizione; il più grande poeta civile del Novecento, come lo definisce Vincenzo Cerami, suo alunno negli anni cinquanta a Ciampino; con lui “abbiamo scoperto che a scuola si va per diventare grandi insieme… conoscersi era il passo necessario alla scoperta del mondo”.  



Esclamerà, quasi a braccio l’ amico Alberto Moravia nell’orazione funebre (lui così intellettualmente opposto): “Abbiamo perso un uomo diverso… e la sua diversità consisteva nel coraggio di dire la verità”.

Dire la verità. Non è un proposito, è uno sguardo, è un grido, anzitutto verso il passato e verso la “terra”, il Friuli e poi le periferie romane. La poesia cosiddetta della Tradizione, apparentemente tratta da Mamma Roma e letta da Orson Welles in quell’emblematico corto cinematografico La ricotta (episodio del film Rogopag del 1962) sintetizza lo sguardo e l’attesa che Pasolini muove al proprio tempo; al deserto di un mondo privo di una presenza viva e reale, un mondo ormai incapace di comprendere il dramma storico più grande della storia, la passione di Cristo, leggibile solo come evocazione estetica o come parodia apparentemente blasfema, Pasolini contrappone il gesto di Stracci, il protagonista, e il grido delle proprie parole: “Io sono una forza del Passato./ Solo nella Tradizione è il mio amore./ Vengo dai ruderi, dalle chiese,/ dalle pale d’altare, dai borghi/abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/ dove sono vissuti i fratelli/ …guardo i crepuscoli, …/ su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo/ come i primi atti del Dopostoria…/ Io feto adulto, mi aggiro/ più moderno di ogni moderno/ a cercare fratelli che non sono più.



Pasolini esordisce con una raccolta di poesie in dialetto friulano (Poesie a Casarsa,1942) che furono recensite dal già autorevole Gian Franco Contini, una critica entusiasmante per il  giovanissimo poeta che darà vita in pochi anni ad una intensa attività educativa e culturale, di cui l’Academiuta di Lenga Furlana a Versuta ne è l’espressione più visibile. Nel testo-manifesto scrive nell’agosto del ’45: “Nel nostro Friuli noi troviamo una vivezza e una nudità e una cristianità che possono riscattarlo dalla sua sconfortante preistoria poetica” (Stroligut n. 1). Cosa ritrova in quel mondo Pasolini? Un modo di essere originale e felice, un’autenticità di vita, di sentimenti, di scoperte della realtà; per il poeta nella primitività del linguaggio, nella sua originarietà è possibile scoprire la eco in cui ogni parola è poesia, cioè capace di creare e rinnovare il legame tra l’essere e l’accorgersi delle cose e la loro espressione. 



Una passione ridotta dalla critica a regressione reazionaria o infantile ed ingenua, oppure ad irrazionalismo sentimentale; invece, la forza di quel gesto poetico sta nel rapporto con la Tradizione, e la sua “sacralità” nel legame con il passato nel quale trovare risposta agli interrogativi drammatici sul male e sull’ingiustizia del presente. 

Nel romanzo postumo Atti impuri, diario trasfigurato degli anni del Friuli, parla di quella che lo studioso napoletano Ernesto De Martino avrebbe definita “La crisi per la perdita della presenza”; è un frammento dove Pasolini rivela il punto più profondo di quella tensione verso la realtà, ed è un frammento che sembra preludere l’esperienza dalla quale sorge l’intuizione di Teorema (1969), quella dell’incontro con una presenza che “infiammi la vita” e la riempia di senso e la cui perdita getta l’individuo nella prostrazione e nell’angoscia, nel non-senso: “Vivevo in un continuo rischio di perdere la vita. E’ in questo tempo che ebbi il senso di quel limite oltre il quale c’era non più io ma un altro… tale fu la mia vera crisi religiosa…. Passavo ore di fronte a una foglia o a un tronco per capirlo, cioè per valicare il limite e la sutura dove io terminavo e cominciava l’altro: la foglia, il tronco“.

Questa scoperta di un oltre permane come una vena scavata in tutti i testi poetici, come un non detto che testimonia quel suo sguardo così puro e radicale verso il reale. “Alle volte è dentro di noi qualcosa/ (che tu sai bene, perché è la poesia)/ qualcosa di buio in cui si fa luminosa/ la vita: un pianto interno, una nostalgia/gonfia di asciutte, pure lacrime (Guinea). Oppure come scrive amaramente per l’amico Ninetto Davoli, “Della nostra vita sono insaziabileperché una cosa unica al mondo non può essere mai esaurita” (Uno dei tanti epiloghi). Scrive in Poesie in forma di rosa del ’64: “Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto/ in ogni mio intuire. Ed è volgare,/ questo non essere completo“. 

(1- continua) 


Nel 40° anniversario della scomparsa di Pier Paolo Pasolini, il Centro Culturale di Milano con Fondazione Ente per lo Spettacolo ha ideato le “Settimane Pasolini” con la Mostra “Pasolini il poeta che sfidò il nulla”, che inaugura oggi, 28 ottobre, e proiezioni di film presso il CineTeatro San Carlo di Milano. Programmi sul sito www.centroculturaledimilano.it