Si è soliti ritenere che la più celebre opera di Franz Kafka, Il Processo, possa riferirsi agli insani meccanismi burocratici della giurisdizione stalinista. E l’opinione comune avrebbe pur qualche motivo valido su cui fondarsi. Benché scritto tra il 1914 e il 1915, il volume viene pubblicato, un po’ in sordina, nel 1925. In quegli anni non è ancora chiara la deriva autoritaristica del modello sovietico, ma dalla repressione antitrotzkista degli anni Trenta fino a tutti gli anni Cinquanta il sistema di prevenzione e controllo sembra più chiaro e, molto lentamente nelle opinioni pubbliche occidentali, finalmente meritevole d’esser denunciato. Senonché Kafka non ha in mente il nascituro apparato socialista, ma è ben dentro il disfacimento del bastione imperiale austriaco. E qui scatta l’ulteriore insegnamento del grande scrittore praghese: il colpo di coda di qualunque regime giuridico rischia di essere sempre più truce e repressivo della sua formazione e della sua affermazione.
La vicenda è nota: il signor K. si trova a doversi difendere da un’imputazione che non conosce, in un processo che non si comprende, per un crimine che non viene dichiarato. I riflessi più paradossali dell’intera vicenda sono che la colpa e la pena, che siamo abituati ad associare al fatto (costituente) reato, arrivano a prescindere dal presupposto materiale che dovrebbe giustificarle. A K. è instillato un profondissimo senso di colpa, che, nel sublimarsi, governa il suo romanzo di formazione. Da positivista del ceto medio di concetto (lavoratore di banca) è inizialmente convinto di riuscire a dimostrare la propria innocenza. Poi, a contatto coi grigi (mal) amministratori della giustizia, le sue incertezze vacillano, gli accadimenti illogici si moltiplicano. Si fa strada, prima, l’idea di trovarsi in una situazione oggettivamente grave e difficile (da che poteva essere, ad esempio, uno scambio di persona)… e successivamente arriva la consapevolezza di avere davvero sbagliato qualcosa di grave. L’esecuzione è la conseguenza: il fatto che la origina non è però il “reato”, il “crimine”, il “delitto”. È, forse, come ammonisce lo zio del protagonista, l’assoluta inadattabilità di K. alla opaca maestria dei suoi inquisitori, travestiti da insondabili giusperiti. La “colpa” di K. è avere affrontato un processo drammaticamente inquisitorio coi presupposti concettuali di uomo “civile” (della civiltà del progresso). Assolutamente inabile a cogliere i codici che lo avrebbero emancipato dalla sua giustiziabilità, diviene inconsapevole artefice del suo tragico destino. E la “macchina” processuale dimostra tutta la sua crudeltà, restituendosi alla logica distorta del suo autoritarismo.
In questo senso, la distanza tra Il processo di Kafka, Lo straniero di Camus e I complici di Simenon è più breve di quello che appare. L’estrema solitudine — a prescindere dall’accertamento del grado di colpevolezza — di chi non corrisponde alle logiche intrinseche di sistemi illogici. Ciascuno con la sua via di fuga e il suo “peccato originale”. Ciascuno col suo carnefice, rispetto al quale provare (e nel caso di Simenon, riuscire) ad essere carnefici a propria volta.
Viene da chiedersi che forme avrebbe il signor K. oggi, svegliato dalle guardie. Chi sarebbero le sue guardie, soprattutto, quale sarebbe il suo labirinto. La permanente attualità di Kafka è che il processo e la giurisdizione, soprattutto in Paesi come l’Italia, non sono riusciti ad evolversi per migliorare la vita delle persone. Hanno per certi aspetti aumentato la divaricazione tra la giustizia sostanziale (rappresentata dall’irripetibilità degli interessi esistenziali del singolo) e quella formale, ridotta ad equazione amministrativa. Che risponde a logiche che nulla di logico hanno, tranne il coerentissimo inserirsi in una forma di ingiustizia positivizzata.
Probabilmente, però, altri “codici”, ancor più di quelli giudiziari, hanno preso o stanno prendendosi il ruolo di totalizzare la vita. Sicché il peccato originale, più che usare lenti da “positivista qualunque” per affrontare un apparato, oggi sembra essere quello di negare che la possibilità di una pratica (qualunque pratica: dalla genetica all’affettività, dalle politiche di bilancio al trattamento dei migranti) implichi la sua piena conformità al sistema.
Come trovare il “processo” dei nostri tempi, il male incurabile con cui tutti temono un giorno o l’altro di dovere convivere? Grazie ad autori come Kafka siamo riusciti a decodificare queste paure. Cos’è oggi il pericolo diffuso, ma di cui ancora non afferriamo appieno l’essenza? Vedendo il contesto attuale, esso ci sembra la manipolabilità a piacimento dell’essere umano. Di cui il processo, alla fine, è un segmento: il più velenoso, forse, ancora oggi, ma uno tra molti.
Il signor K. potrebbe essere un esodato (sicché è ancora a tutti incomprensibile come ci si possa trovare nella condizione di essere “esodati”), un migrante “smistato” (termine ben noto ai burocrati europei, quasi quanto agli spedizionieri) in “corridoi” formali-legali senza alcuna garanzia sostanziale, un uomo sgomento per il sapere che qualcuno potrà legiferare su come e quando riprodursi, o su come e quando estinguersi. E che dire delle suadenti retoriche ecologiste, che sviliscono il vero impegno per migliori condizioni di vita? La cura ambientale rivendicata troppo spesso a parole, e disattesa nei fatti, è più opaca delle cangianti aule di tribunale dove K. vede i luoghi trasformarsi volta per volta.
Certi paladini dell’ecologismo manierato, ad esempio, che si sono disegnati un’enciclica del Papa su misura (ripetendone come mantra solo gli aspetti più graditi e obliando o misconoscendo tutti gli altri) sono davvero così diversi dagli zelanti cancellieri, funzionari, segretari kafkiani, vari e veri “mestieranti” di un formalismo inesistente? Agiscono dietro un mandato che impongono e presuppongono come imperativo. Ma è sempre indecifrabile e oscura la fonte che li delega.