Un testo denso e abbondante questo di Ioan Ploscaru (Catene e terrore. Un vescovo clandestino greco-cattolico nella persecuzione comunista in Romania, Edb, 2013), in cui memoria personale e storia politica si intrecciano a vicenda, aggrovigliandosi. Il mosaico complesso e affascinante che ne deriva è forse il miglior viatico per comprendere cosa sia stata, e cosa abbia determinato, la persecuzione cristiana nei paesi dell’Europa socialista. Arrestato dalla Securitate nel 1949, recluso per quindici anni nelle carceri della Romania, il vescovo greco-cattolico Ioan Ploscaru ha pagato con l’accusa di “tradimento della patria” e di “spionaggio” il rifiuto di passare alla Chiesa ortodossa. Siamo alla fine della seconda guerra mondiale e la Romania “liberata” dai sovietici entra, con il governo di Petru Groza, in un periodo buio e di sofferenza. Nelle carceri comuniste e nelle colonie dei lavori forzati vengono perseguitati e sterminati cittadini romeni di diverse confessioni, alcuni per motivi strettamente politici, altri — come i vescovi e i fedeli greco-cattolici, dichiarati fuorilegge nel 1948 — a causa del credo e dell’appartenenza alla Chiesa di Roma. 



Questo, in effetti, è uno dei temi ricorrenti del diario di Ploscaru. L’appartenenza alla chiesa di Stato ortodossa, per il regime comunista, era un segnale di rassicurazione, di avvenuto e riuscito controllo sulla società e sui singoli: gli uomini dovevano appartenere allo Stato e a null’altro all’infuori di esso. Il legame con la Chiesa di Roma e con la figura fisica e spirituale del papa, proprio per questo, erano considerati una spina nel fianco da eliminare, un pericoloso avamposto nemico nella società perfetta che si intendeva realizzare. L’origine delle persecuzioni è tutta qui. Nulla di nuovo, dal momento che le persecuzioni di ogni tempo hanno avuto questo aspetto — grande e tragico insieme — in comune. Eppure nell’universo totalitario novecentesco, e in particolar modo in quello socialista, un altro elemento si è aggiunto; al Dio tradizionale un nuovo dio è subentrato: il paradiso terrestre dell’uguaglianza e della giustizia. 



Sulla sua pelle segnata Ploscaru ha ben descritto tutto questo. Senza soccombere al rancore, senza cedere all’acredine, tessendo invece un racconto semplice dei fatti – banale si potrebbe dire, se non fosse per l’accezione riduttiva e pedante dell’attributo – nell’evidenza che la realtà basti, essa sola, a descrivere il tutto. Queste pagine lucide e dolenti, composte tra la metà degli anni Cinquanta e primi anni Novanta e pubblicate in Romania nel 1993, sono infatti segnate dalla compostezza di un uomo che ha deciso di non patteggiare con la propria coscienza, di descrivere quanto di vero ha visto accadere su di sé nel momento più duro della propria esistenza. Una fede che non scema per gli attacchi continui dei suoi carcerieri ma che anzi si rafforza nell’offerta del proprio dolore a Cristo, come è egli stesso a scrivere: “E la fine più nobile, offerta, dedicata a Te, possibile solo al cuore che s’è sacrificato nel martirio lento per la fede” (pag. 273). 



E’impressionante veder realizzata nella vita di Ploscaru un’esperienza completamente opposta a quella che i suoi aguzzini avevano preparato per lui: non una sconfitta ma una vittoria, non la distruzione ma la rinascita, non l’oblio ma la testimonianza. E, soprattutto, non il rancore ma la speranza. Essa domina nel testo come un fil rouge prepotente: una speranza divina eppure tutta umana, candida, ineffabile, una speranza incorrotta eppure impastata nel sangue della sofferenza, della paura, del dolore. Non si tratta di eroismo. In più occasioni, nel testo, compaiono esempi di chi ha ceduto, di chi è passato all’ortodossia onde evitare, per sé e i propri cari, ripercussioni troppo gravi da sopportare. Ed è forse proprio la costante presenza di antieroi a dare un significato augusto alla sua stessa testimonianza. Troppo semplice, avendola scampata, sarebbe stato il contrario. Nulla di tutto ciò, invece. 

Non la sua forza a dargli coraggio, ma il suo coraggio, la sua fede, a dargli la forza. Ploscaru non smette un istante, in ogni modo, di ribadirlo. E’ evidente dalla lettura che questo è l’intento precipuo del libro. Nel finale, prima della scarcerazione — cui seguì, è bene ricordarlo, un periodo di sorveglianza e pedinamento durato ininterrottamente fino al 1989 — racconta il periodo in cella di isolamento cui venne sottoposto per non aver rivolto il saluto a un maresciallo, all’occorrenza opportunamente nascostosi dietro un angolo. Ne descrive le privazioni fin nel dettaglio, ribattezzando scherzosamente «la nera» la cella che lo aveva ospitato: “là, buio — ci dice — il cibo veniva dato una volta ogni tre giorni (…). Il sonno sul duro, dal momento in cui venivano spente le luci, non mi sembrava così difficile, (…) più difficile da sopportare era il freddo, perché non avevo nulla da mettere sulla testa. Provai con la gavetta e con le scarpe, ma non erano oggetti abbastanza stabili; inoltre non potevo privarmi delle seconde e dormire scalzo, a causa del freddo”. Eppure, continua, ed è la sostanza del suo diario – “a prescindere dalle privazioni cui fui sottoposto nella «nera», quei cinque giorni furono per la mia anima di grande consolazione. Rievocando la passione e la morte del nostro Salvatore Gesù Cristo, le mie sofferenze erano infime. Rimasi sempre in meditazione e in preghiera. «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Rm 8, 35), domandava il santo apostolo Paolo”. Per poi concludere: “mi venivano in mente frammenti di versi: Non hanno i nemici, Signore, tanto ferro, le loro catene sono poche per uccidere la nostra nostalgia di cielo, per incarcerare l’amore per Te…” (pag. 419-420). «La nostalgia di cielo», ecco cosa resta delle persecuzioni cristiane nell’Europa dell’Est. «La nostalgia di cielo», ecco cosa resta dell’impatto con l’esperienza di Ploscaru.