Catania, la città dell’Etna e del barocco, di sant’Agata e di Vincenzo Bellini, è anche la città dei ragazzi di periferia che per “riuscire” diventano boss mafiosi. Ce lo ricorda il bel volume del magistrato Sebastiano Ardita (Catania bene, Mondadori 2015) sulla mafia catanese che, al contrario di quella palermitana apertamente in guerra con lo Stato, segue la “strategia dell’inabissamento”. Cosa nostra etnea — sostiene Ardita, che negli anni 80 è stato uno dei pm di punta nelle indagini sui Cavalieri del lavoro e sulle tangenti e oggi è procuratore aggiunto a Messina — “penetra nelle istituzioni e nel mercato, pur rimanendo ortodossa, e fedele alle regole dell’associazione (…); [essa tenta] di recidere ogni legame con l’ala militare, fino quasi a sparire alla vista”. Si potrebbe, perciò, ipotizzare che Cosa nostra etnea precorra quella che oggi viene definita la trattativa Stato-mafia.
L’interesse del libro sta nel fatto che Ardita non ci propone un’analisi sociologica del fenomeno. Ci offre, piuttosto, una riflessione sulla sua esperienza di magistrato in prima linea nelle indagini di mafia, che rilegge il passato con un desiderio di capire il presente. Nel libro si parla, attraverso il racconto umanissimo di episodi inediti vissuti dall’autore allora “giudice ragazzino”, dell’ascesa e della cattura di Nitto Santapaola, della guerra interna a Cosa nostra catanese, dei rapporti con i boss palermitani e della tangentopoli che decapitò la leadership politica locale. Ma il protagonista vero del libro è una città bella e raggiante, oltraggiata da Cosa nostra, che oggi appare agli occhi del procuratore “immobile, anestetizzata, in preda a una pericolosa normalità, impotente e paralizzata”. Una città che ha perso la consapevolezza della sua identità e dei suoi problemi. Ecco il punto. Da dove ripartire?
Fra i molti spunti di interesse che la lettura del volume ci ha suscitato, ne citiamo uno che potrebbe aiutare a capire la priorità dell’oggi. Ardita fa propria l’ipotesi lanciata a suo tempo da Giambattista Scidà, per due decenni presidente del Tribunale dei minori a Catania, secondo cui per comprendere la mafia catanese “il punto di partenza è la questione minorile”.
La questione, già nel 1985, fu al centro della “Indagine su Catania” della Commissione nazionale antimafia. In quel rapporto leggiamo: “Questi ragazzi di San Cristoforo sono quasi tutti di famiglie numerose alloggiate in abitazioni malsane di un solo vano in cui convivono anche più di dieci persone, che non dispongono dei servizi igienici. Molti, col padre in carcere, non frequentano neppure le scuole dell’obbligo, vengono proiettati nella strada, hanno rapidamente l’esigenza di guadagnarsi da vivere (…) C’è un esercito di bambini e ragazzi sfruttati illegalmente nel lavoro nero di garzoni o venditori ambulanti (…) Molti ben presto si ribellano (…) ed ecco il ricorso agli espedienti ed alle attività che possono fruttare denaro senza dover dar conto ad un padrone: sono i piccoli furti poi gli scippi”.
Fa notare opportunamente Ardita che “tutti i più famosi criminali catanesi e i capi delle associazioni mafiose sono stati ‘ragazzi’ di quel quartiere. Orgogliosi, pieni di rabbia in corpo e in cerca di riscatto”. E amaramente l’autore chiosa: “Nei quartieri tutto sembra fermo a trent’anni fa”.
Oggi la situazione, per alcuni aspetti, è peggiorata. I ragazzini non vanno a lavorare in nero o a delinquere soltanto per far fronte alla povertà della famiglia. Vengono indotti a queste scelte dall’inefficienza e dall’ottusità degli stessi enti pubblici.
La Commissione antimafia nel 1985 scriveva: “Molti, col padre in carcere, non frequentano neppure le scuole dell’obbligo” perché devono procacciarsi da vivere.
Oggi è peggio perché molti di loro non vanno a scuola, perché la scuola non comincia, anzi chiude loro le porte in faccia.
In Sicilia 3mila ragazzi fra i 15 e i 18 anni (sono gli allievi del 3° anno dei corsi di formazione professionale validi per l’obbligo scolastico) da settembre 2014 aspettano ancora il suono della prima campanella.
Per capire quanto sia fondamentale questo punto, cito la lettera di un ragazzino di terza media di un quartiere povero di Catania pubblicata dal quotidiano La Sicilia. Il ragazzo racconta delle sue difficoltà a studiare e del dramma che vive circa il suo futuro stretto nell’alternativa fra un lavoro facile e la fatica della scuola. E conclude: “Studio perché non voglio essere un animale, perché un animale non sa niente e agisce senza pensare, mentre io voglio essere libero”.
Ardita introduce un altro aspetto del problema. “Accanto alla miseria dei rioni popolari l’altra faccia della città è la Catania bene che domina tutto con la sua vocazione commerciale e imprenditoriale e fornisce i quadri dirigenti di ogni settore. (…) La città bene e quella a rischio stanno una dinanzi all’altra come due parenti che si conoscono e si frequentano solo per convenienza. Ed è sempre il parente povero ad attraversare via Plebiscito per andare a casa dell’altro” (a volte per chiedere qualcosa, altre per rubare o per minacciare, altre ancora per stringere accordi, per fare patti). La Catania bene, invece, sembra essersi dimenticata dei disagiati.
Immaginiamo cosa potrebbe accadere se ad attraversare via Plebiscito fosse, invece, il parente della Catania bene.
Per la verità non dobbiamo usare la fantasia, ma solo osservare la realtà, anche se si presenta in forme discrete. A 100 metri da via Plebiscito c’è uno dei licei classici più noti della città, lo “Spedalieri”. Venti anni fa, una insegnante di quel liceo propose ai propri alunni una iniziativa di volontariato nel quartiere “Cappuccini”. Si trattava di portare alle famiglie più povere cibo, indumenti e di aiutare i bambini nei compiti. Col tempo molti di quei ragazzi-volontari sono diventati medici, avvocati, insegnanti, operai e continuano quell’iniziativa di volontariato, mentre tanti altri se ne sono aggiunti.
Per effetto di questo impegno nel quartiere si è consolidata da diversi anni un’iniziativa gratuita che permette a un centinaio di ragazzi in difficoltà di essere stabilmente seguiti nello studio sia da insegnanti sia da universitari. Il dato più interessante di questa iniziativa è appunto l’aspetto educativo. Perché o si capisce che la scuola è il miglior antidoto alla delinquenza, o qualsiasi attività di repressione finisce per essere monca.
L’esperienza di volontariato nel quartiere Cappuccini non è l’unica in città, basti pensare ai volontari che sono presenti nel quartiere di Librino o nelle opere della Caritas.
C’è, dunque, un piccolo nucleo di Catania bene che s’è mosso. Occorre tenerne conto perché questo cambia la prospettiva nel pensare il contrasto a Cosa nostra. Altrimenti arriveremmo alla conclusione che la mafia 2.0 che oggi è ben radicata a Catania, nonostante le molte vittorie delle forze dell’ordine e della magistratura, abbia l’ultima parola. Come diceva don Pino Puglisi, invece, se si vuole veramente voltare pagina bisogna partire da “ciò che inferno non è”.