Rileggere i classici è spesso esercizio che viene compiuto come una semplice ginnastica erudita: si cerca di forzare i contesti, si usa la miniera della saggezza passata per trovare boe a vantaggio delle proprie tesi malcerte. Tornare con questo spirito alla splendida raccolta di Pavel Florenskij Bellezza e liturgia (nella redazione antologica pubblicata da Mondadori nel 2010, a cura di Natalino Valentini e con la traduzione di Claudia Zonghetti), sarebbe un triplice errore. Farebbe torto all’analisi antropologica della società russa, cui Florenskij dedica molto spazio, con cura e profondità; non consentirebbe di cogliere quegli spunti che l’autore dissemina nel testo e che potrebbero essere recuperati proprio per come sono stati scritti, senza alcuna manipolazione postuma; impedirebbe di comprendere la valenza degli scritti di Florenskij anche per i saperi laici (cui Florenskij pure non guardava espressamente, ma che dimostrava di conoscere non banalmente). 



Il titolo, mutuato da un saggio dell’autore, è quanto di più azzeccato possa esserci. Florenskij è in questo discepolo della tradizione monastica dell’Europa orientale: fatta di peregrinazioni e pellegrinaggi, di dialogo con l’altro (l’altro qualunque, non il letterato, non l’intellettuale organico, ancor meno il cortigiano), di un’idea innanzitutto spaziale della fede. Cercarla ovunque si manifesti. Non è un caso che Florenskij spesso parli delle forme della religiosità tradizionale nel Nord del Paese. Quel profondissimo Nord (e Nord Est) che oggi è un po’ abbandonato a se stesso: non salito sul treno della modernizzazione cosmopolita che ha caratterizzato i grandi capoluoghi come Mosca e San Pietroburgo, non aiutato dalla migliore collocazione geografica di altri territori di provincia. Vicino al contatto col più radicalmente altro che si possa immaginare (l’Asia, la Cina, le tribù nomadiche contro la sofferta, dignitosa, e molto relativa, stanzialità contadina), eppure munito di un’identità, di un’appartenenza esistenziale così forte che le nevi e le carestie non solo non la scalfiscono, ma addirittura la cementano. 



E Florenskij si conferma uomo di grande mitezza argomentativa. Nelle sue pagine, c’è comprensione per il travaglio della prostituta, per la religiosità premasticata nel linguaggio e nel rito, ma straordinariamente vivida nella speranza, dell’ubriacone o della vedova o dei vecchi. Parla di ortodossia, e di ortodossia russa, segnatamente. La querelle teologica sulla conformazione giuridica delle Chiese autocefale traspare poco, ed è un bene. Non perché a Florenskij sarebbe mancata la prudenza di investigare anche queste tematiche, dove il diritto canonico tocca il nazionalismo, la sociologia e la letteratura, ma perché, semplicemente, Florenskij guarda altrove. Alla bellezza e alla liturgia. E scopriamo, anche in chiave ecumenica, quanto poco ci si soffermi oggi sulla bellezza e sulla liturgia e sul legame tra queste due sfere, che sole promettono (e rendono) consolazione nell’umiltà di chiunque si accosti ad esse. Parte della Chiesa di Cristo, quand’anche gli sfuggano le implicazioni di quest’appartenenza che fa dell’universalismo una missione e della comunità il fondamento della propria esistenza. 



Un laico, un ateo, un diversamente credente, potrebbero leggere Florenskij con la stessa dedizione di un ortodosso russo: non per trovare una cronistoria affettiva della dimensione liberante del rito, ma per comprendere al nocciolo cosa debba interessare della religione all’uomo e dell’uomo alla religione. Dio e persona. Dignità e splendore. Introspezione e relazione: sfere inscindibili che stanno dentro l’endiadi “bellezza e liturgia”. La liturgia che cementa le prassi, dà loro una veste ad un tempo formale e all’altro sostanziale: formale perché fissata in regole, sostanziale perché destinata a rivivere nel significato perenne che il popolo rinnova con l’uso. E la bellezza, quell’ideale gioioso, non di metafisica contemplazione (ma nemmeno di invadenza e moralismo, di controllo e coazione, di superiorità e falsa coscienza), che porta la serenità, la composizione nel conflitto, il ristoro nel dolore. Il respiro nella tormenta. 

Con le parole dello stesso Florenskij, “gli uomini tendono sempre a costruirsi idoli per sbarazzarsi della fatica di servire l’eterno e per consacrarsi passivamente alla semplice datità” (p. 46). Anche perché “così come chi è seduto su un declivio scivola giù a ogni movimento, anche in questo caso la sequenza è ovvia: cacciare Dio, sbarazzarsi di Lui per essere se stessi” (p. 85). Per ovviare al cortocircuito tornare all’originalità ontologica del cristianesimo è una pratica giovevole, contemporaneamente riflessiva e comune, che poggia la credenza sul piano di un’antropologia ancora più ampia, alla fine della quale il rapporto con Dio torna centrale. “Il cristianesimo è cristallizzazione di quanto c’è di più umano, dell’umanità nella sua forma più pura. E perché l’umanità possa rivelarsi, Dio dovrà incarnarsi nell’uomo” (p. 85). Uno scambio, un rapporto, un “essere con” per “essere in” che ai vincoli del settarismo ha la forza di anteporre la libertà della coscienza.