Svetlana Aleksievic, la scrittrice bielorussa che ha vinto il Nobel per la letteratura, già viene contesa da varie parti: è bielorussa! sì, ma russofona! Comunque sia, era da tempo che uno scrittore di lingua russa non riceveva il Nobel. Un grande e meritato rientro.
La stessa scrittrice, di per sé, si definisce in modo complesso: «sono un caso non banale di identità multipla»; ed effettivamente: di lingua russa, è nata in Ucraina e vissuta in Bielorussia. In altri termini compendia in sé la realtà dell’impero sovietico, dove i popoli si mischiavano e transitavano perennemente da un angolo all’altro. Appartiene a quello spazio storico, culturale e ideologico che oggi tanti ricordano con nostalgia. Lei però no, su questo spazio sovietico ha meditato e ne ha tratto materiale per i suoi libri, ma senza nostalgia, anzi, come si scandaglia un ascesso, per capire cosa vi si nasconde. Per 35 anni, dice, ha studiato «l’uomo rosso» cercandone l’umanità ferita.
Ora alcuni suoi colleghi osservano con sufficienza che si tratta in fondo di una «pubblicista», ma da tempo la letteratura in lingua russa non conosceva un lavoro di scrittura così artisticamente incisivo.
La sua scrittura è in realtà un lavoro di scavo nel profondo delle sciagure umane, e va dritta al fondo per trovare l’uomo; come Grossman cercava l’umano nell’uomo andandolo a cercare nella Stalingrado assediata o nelle campagne sfigurate dalla carestia, come Dostoevskij traeva le sue trame dalla cronaca nera dei giornali, così la Aleksievic osa guardare in faccia le grandi tragedie: anche lei quelle della seconda guerra mondiale (La guerra non ha un volto di donna); o quella più recente di Cernobyl (Preghiera per Cernobyl’); quella della guerra in Afghanistan (Ragazzi di zinco); e infine quella dei dolorosi anni 90 (Tempo di seconda mano). Ma non è per crogiolarsi nell’orrore che sceglie di descrivere queste tragedie, né per una denuncia che voglia colpire scioccando, anzi, cerca l’umano con infinita tenerezza, disseppellendolo da sotto strati di silenzi e banalizzazioni; degli orrori, scrive: «dobbiamo sapere soltanto quel poco che possiamo sapere senza correre il rischio di vederci come veramente siamo, e spaventarci».
Questa tenerezza l’abbiamo vista qualche anno fa, quando venne in visita nella sede di Russia Cristiana e chiese per favore che si celebrasse insieme un servizio di suffragio per i suoi morti. E oltre alla tenerezza abbiamo visto un’infinita modestia (dopo tutto ha venduto 4 milioni di copie in Occidente) e una grande capacità di ascolto, di attenzione, di amore alle singole persone, per ricordarle e tenerle vive nella memoria fuori da ogni ruolo e formalità.
Questo premio Nobel riconosce anche questo: il valore di un’arte che cerca l’uomo e non si arresta alla forma; la Aleksievič ha dato voce all’uomo singolo sconosciuto, concreto, davanti al quale non reggono le costruzioni ideologiche, gli eroismi, i moralismi. C’è una frase, in un suo libro, che dà tutto il significato dello scrittore, oggi e sempre, ed è un’idea che ripete spesso anche nelle interviste: «non noi ma io», non il collettivo con il quale ha cercato di sedurci il mito sovietico, ma l’uomo nudo davanti al destino. Non la grande storia ma le singole storie private, nella loro infinita varietà. Come autore è lontana dalle morti tante volte annunciate: dell’autore, del protagonista, del testo; la Aleksievic racconta storie vere in modo comprensibile, personale, con tutta la vulnerabilità del testimone. La sua scrittura interroga ciascuno e chiede ragione della posizione che abbiamo di fronte alla vita: «Noi diciamo sempre “noi”, e non “io”, “noi daremo prova dell’eroismo sovietico”, “noi faremo vedere il carattere sovietico”. Al mondo intero! E “io” invece? Io sono io! E io non voglio morire… E io ho paura… […] Dopo Černobyl’ credo sia un fatto naturale. Abbiamo imparato a dire “io”… Io non voglio morire!… Io ho paura…».
Questa è la grande letteratura russa.