Quasi duecento anni, fa, in una villa tra le montagne svizzere, la mente di una diciannovenne inglese partorì il mostro più famoso della narrativa mondiale. Doveva essere una gara tra amici a chi scriveva il più bel racconto di fantasmi; il Frankenstein, di fatto, è molto di più e con i fantasmi c’entra ben poco. Altro che romanzo gotico. Non ha interesse per il medioevo, tantomeno quello di maniera, tutto misteri e superstizioni, immaginato dai preromantici. Frutto maturo dell’illuminismo, con la sua esplorazione delle possibilità della scienza, è al tempo stesso una sintesi dell’impeto romantico, con il suo titanismo, le sue passioni, la sua esaltazione del genio e del sublime. E, sottostante tutto ciò, l’anatomia del dolore. È un coacervo di temi, un insieme organico e complesso che offre una lettura appassionante a ogni sorta di lettore, dall’amante dell’horror al cultore di fantascienza e a quello del romanzo distopico, dal cultore di teorie politiche all’indagatore dell’animo umano, al moralista, al filosofo. 



Ci ricorda tutto ciò il nuovo saggio di Paolo Gulisano e Annunziata Antonazzo, Il destino di Frankenstein (Ancora). In copertina troviamo una rivisitazione delle due mani michelangiolesche di Dio e di Adamo. Al posto di Dio, una mano umana; al posto dell’uomo, un robot fatto di metallo e sangue. Sullo sfondo, un cielo cupo solcato da un fulmine, al tempo stesso strumento mitico di un dio castigatore ed energia elettrica, potenza vitale. 



Gli autori presentano il classico di Mary Shelley nella sua complessità, dalle risonanze mitiche e titaniche del sottotitolo (il moderno Prometeo) agli ammonimenti profetici contro la pretesa umana di imitare il Dio creatore. Ripercorrono inoltre le vite burrascose dell’autrice e del suo compagno (poi marito), il poeta romantico Shelley, che si intrecciano con quelle di altri giovani inquieti, figli di un’epoca inquieta. Tracciano poi il terreno di coltura del romanzo nel clima ancora illuministico di fine Settecento: nell’interesse per la scienza e per il galvanismo, nel socialismo utopistico, nella passione per i progetti per un mondo migliore, nelle dottrine di Rousseau sulla bontà naturale dell’uomo e sulla sua successiva corruzione ad opera della società.



Frankenstein, ci ricordano con forza, è un sogno che diventa incubo, un’utopia che si fa tragedia, un anelito di vita che produce solo morte e distruzione. Il sogno della ragione genera mostri: il celebre aforisma di Goya non è mai parso più letteralmente vero. Victor Frankenstein è un medico, ma l’obiettivo della sua vita non è tanto il prendersi cura degli uomini bensì manipolare la natura, “inseguirla nei suoi nascondigli”, forzarla, sconfiggerla, abolendo i confini tra la vita e la morte. 

Rappresenta “il volto della medicina moderna che vuole superare ogni limite, che non vuole tanto occuparsi dei bisogni, ma realizzare dei desideri” (p. 71), in un delirio di onnipotenza che è più che mai presente tra noi. Ma, lungi dal realizzare i sogni della nuova scienza, il mostro che prende vita “è un organismo ricostruito, il risultato di un bricolage biologico. È il tentativo ambizioso ma ridicolo di vincere la morte: così come l’Anticristo è simia Dei, così il mostro di Frankenstein è simia hominis, una goffa imitazione mal riuscita dell’uomo” (p. 16).  

Il mostro diventa assassino perché il suo bruciante, divorante bisogno di amore ha ottenuto come unica risposta odio e disprezzo. Nel suo immenso dolore, la creatura “nata” adulta (senza un passato) coltiva l’odio e giura vendetta verso tutto il genere umano. Perché siamo tutti, innanzitutto, assetati di amore. Nella sua solitudine assoluta, il mostro chiede allora al suo artefice/padre/creatore di dargli una compagna, proprio come il Creatore della Genesi affiancò Eva ad Adamo: Non è bene che l’uomo sia solo. Ma questo, per il mostro, non accadrà mai. Il suo creatore lo priva di una compagna proprio come lo ha già privato di un nome. “A lui tutto questo è stato negato. A lui è stata negata un’identità, egli non ha storia e per di più gli è precluso l’incontro con un qualunque suo simile. Egli non esiste” (p. 104). 

Un romanzo in cui il soprannaturale è tetramente assente evoca paradossalmente nel lettore una “nostalgia di Dio”: di un Dio, cioè, che ha cura delle sue creature e chiama ciascuna per nome; agli antipodi di Frankenstein, creatore e padre insieme, che rifugge le sue responsabilità e rifiuta la sua creatura prima ancora che essa si guadagni il suo odio.

Il messaggio più attuale, sottolineano gli autori, è la valenza profetica del romanzo: parlando di scienza, cosa è lecito indagare? Dove deve fermarsi la mano dello scienziato? C’è qualcosa di sacro e di inviolabile nel mondo? Come il mostro urla in faccia al suo creatore: “Come osi scherzare così con la vita?”.


Paolo Gulisano, Annunziata Antonazzo, “Il destino di Frankenstein tra mito letterario e utopie scientifiche”, Ancora, Milano 2015. 
Il libro viene presentato oggi, venerdì 13, alle ore 17.30 al Museo del Fumetto in Viale Campania 12 a Milano.