Vasilij Grossman aveva trentasei anni, era un autore rispettabile, ? ligio al canone del realismo socialista seguiva le direttive del Partito (cui pure non era iscritto), quando l’Urss venne invasa dai tedeschi, il 22 giugno 1941. Si arruolò volontario, e il 5 agosto venne inviato al Fronte centrale come corrispondente speciale della Stella Rossa, il giornale dell’Armata Rossa. Iniziò subito ad annotare nei suoi taccuini (i diari erano vietati dal regime) quanto vedeva e sentiva: ogni parola, ogni particolare di cui veniva a conoscenza intervistando soldati e ufficiali.
Ricordava il “terribile” direttore della Stella rossa, Ortenberg: “Credo che fosse proprio la sua abitudine di non prendere appunti nel corso delle interviste a garantirgli la fiducia della gente. Avrebbe messo tutto per scritto in un secondo momento, dopo aver fatto ritorno al posto di comando”. Lì “riportava meticolosamente ogni parola nei suoi taccuini… Sono appunti estremamente concisi. Colgono i tratti peculiari della vita al fronte in una sola frase, come se venissero fissati su carta fotografica”.
Il recente volume adelphiano V. Grossman, Uno scrittore in guerra (a cura di A. Beevor e L. Vinogradova, traduzione di Valentina Parisi, Adelphi, 2015, pp. 472) offre ai lettori italiani un saggio di questi straordinari taccuini; i curatori ne citano lunghi brani così come frammenti, li ordinano secondo la cronologia degli eventi bellici e li commentano. Insieme con i taccuini sono raccolti una selezione dell’epistolario (in particolare, delle lettere ai famigliari) tuttora inedito in italiano (del resto, anche in russo è uscito solo in forma incompleta e ridotta), alcuni saggi in parte già pubblicati (come L’inferno di Treblinka, di cui nel volume è riprodotta un’ampia, terribile e bellissima parte, nella traduzione di Claudia Zonghetti), e stralci degli articoli apparsi in “Krasnaja zvezda”, che resero Grossman celebre e amato tra i lettori del paese in guerra. Vi sono anche le testimonianze di chi conobbe lo scrittore e lavorò allora con lui. Come il già citato Ortenberg, e il collega Erenburg. Il primo gli pubblicò con entusiasmo, nell’estate del 1942, il romanzo ancora social-realista Il popolo è immortale, che ebbe enorme successo. Il secondo, nelle memorie Uomini, anni, vita, destinate a creare il canone letterario sovietico del Disgelo, notava che “Grossman trovò la sua strada di scrittore durante la guerra. Nei libri precedenti era ancora alla ricerca di un tema, di un linguaggio”. Ed è vero: l’autore di Vita e destino, Tutto scorre, La Madonna Sistina, dei sorprendenti racconti dei primi anni sessanta, uscì trasformato — come del resto avvenne per i migliori autori in lingua russa del suo tempo — dall’esperienza, spaventosa ma reale, umana e concreta, del conflitto.
Nella quotidianità al fronte, vissuta come reporter (“una volta un generale … ha detto che gli uomini più coraggiosi sono i corrispondenti di guerra, perché sono costretti a lasciare le retrovie per il fronte talmente tante volte…”), scoprirà che l’eroismo è “una questione di gesti quotidiani”.
Raccontando la quotidianità, senza indulgere, come molti colleghi, alle frasi fatte della propaganda staliniana per scrivere della guerra, si troverà per la prima volta a fare i conti con la censura. “Se sapessi come tagliano e distorcono i miei poveri pezzi, non limitandosi ‘solo’ ad aggiungere qua e là intere frasi…” scriveva alla moglie mentre a Stalingrado si delineava la vittoria sovietica (i due curatori non raffrontano i testi originali con quelli censurati, né forniscono indicazioni o esempi di autocensura, cui pure Grossman dovette sottoporsi, anche nei taccuini).
È proprio a Stalingrado che le già incrinate certezze ideologiche grossmaniane inizieranno a venire meno. Lo scrittore vi arriva all’apice della carriera (“Mio caro padre, la mia situazione non è mai stata così rosea, ho fama, riconoscimenti” scrive nell’agosto ’42), ma con “il cuore gravato da un peso”: dal luglio 1941 ignora infatti quale sia la sorte della madre, rimasta in Ucraina, a Berdicev, conquistata dai tedeschi. La traccia dolorosa di questa apprensione è costante nei taccuini: “Ho ricevuto una cartolina dal Dipartimento per la migrazione, dice che la mamma non è nella lista degli evacuati. Lo sapevo che non era riuscita a fuggire, eppure leggendo quelle righe dattiloscritte ho avvertito una fitta al cuore” (maggio 1942); “Mi tormento pensando che ne è stato della mamma”; “Sogno spesso la mamma. Una notte, durante una tappa… No, non credo che sia sopravvissuta” (marzo 1943). Nel gennaio 1944, a Berdicev (era stato nel frattempo assegnato al Fronte ucraino) Grossman vedrà le fosse comuni degli oltre 20mila ebrei uccisi insieme con sua madre. Dopo Stalingrado, la scoperta della Shoah — gli eccidi nazisti in Ucraina, e in Polonia, a Treblinka, dove entrerà, primo scrittore al mondo a darne testimonianza scritta, in un campo di sterminio —, gli rivelerà il volto del totalitarismo, di cui di lì a poco riconoscerà i tratti anche in patria, come sanno i lettori di Vita e destino.