Caro direttore,
per grazia o per destino mi sono ritrovato ieri sera tra le mani i Canti Orfici di Dino Campana. «La magia della sera, languida amica del criminale, era galeotta delle nostre anime oscure e i suoi fastigi sembravano promettere un regno misterioso. E la sacerdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua ed avida e il poeta si guardavano, anime infeconde inconsciamente cercanti il problema della loro vita» dice a un certo punto quel matto d’un poeta, e leggendolo non ho potuto fare a meno di tornare ai fatti di Parigi e a tanti commenti letti e in un certo senso condivisi negli ultimi giorni.
Dei molti tentativi di leggere ciò che è accaduto, di dare un significato e una ratio a qualcosa che tutte le nostre carni ci dicono essere assurdo, una linea non esigua ha posto l’accento sulla povertà di valori di un Occidente sempre più avvitato su se stesso e strozzato dal peso della propria storia di grandezza. Sul fatto, cioè, che per opporre al nichilismo distruttivo degli attentatori i nostri valori, dovremmo prima «recuperarli», uscire dal relativismo etico-morale e dall’edonismo che guida le nostre vite e riflettere su quali siano i fondamenti di questa civiltà che abitiamo e di cui sembra scorgersi sempre più chiaramente l’ultimo chilometro. Non vinceremo la rabbia dei jihadisti con il nostro vuoto etico, dicono queste voci. E in parte — in tanta parte — come non condividerle, come non condividere il desiderio espresso di una vita più piena, più vera, più significata? Campana stesso, nel brano citato, esprime la brama di una vita più autentica e tutti noi, in almeno un punto della nostra esistenza, abbiamo la percezione di quanto siano finte le vite che conduciamo. Come potremo vincere, allora, come potremo convincere chi vuole distruggerci che le nostre vite vuote, che i nostri valori vuoti siano più desiderabili e più veri della loro furia iconoclasta?
È un tema, quello del vuoto di senso dell’Occidente, in cui credo e che tante volte ho sostenuto. E che continuerò a sostenere, perché ne sono profondamente convinto, perché gli occhi miei e quelli di chi almeno una volta ha visto nella propria vita l’horror vacui gridato da mister Kurtz non possono rigettarlo. Epperò…
Epperò non è vero. Non qui e ora, non oggi. Il nichilismo gaio di questo nostro Occidente in disgregazione e il nichilismo furente degli attentatori di Parigi non sono paragonabili. La joie de vivre edonistica in cui Hollande e tanti commentatori hanno cristallizzato le nostre ragioni non è abbastanza? Non vale abbastanza per combattere? Dobbiamo spendere vite nell’inazione a caccia della chimera esistenzialista della vita autentica?
No. Il nostro nichilismo gaio e il nichilismo furente di chi ha colpito venerdì 13 novembre non stanno — ne potranno mai — stare sullo stesso piano. Perché il nichilismo gaio di cui siamo imbevuti è un’affermazione dell’Essere. Distorta, ridotta, immeschinita quanto si voglia, ma un’affermazione dell’Essere, un tentativo di conseguire quello che la natura del cuore umano detta di fronte al mistero della realtà: lode, venerazione, desiderio di comunione completa con essa. Sete di vita.
Non così il nichilismo odiante di chi ha colpito a Parigi, che — pur nascendo dal medesimo desiderio, che il mondo sia lode e venerazione dell’Essere — sceglie l’opzione contraria: non tentativo di comunione, ma — di fronte alla forma incomprensibile e contraddittoria con cui questo Essere si dà nella storia — tentativo di distruzione. Chi va il venerdì sera a buttarsi in ubriachezze e lascivie tenta — tristemente, se vogliamo — di vivere. Chi va il venerdì sera a impedire col kalashnikov ubriachezze e lascivie altrui cerca la morte, altrui e propria.
C’è un motivo per cui la nostra civiltà decadente può ancora desiderare il bene individuale, pur nelle forme ridotte con cui lo fa. È perché un uomo, in un determinato momento della storia, circa millenovecentottantotto anni fa, ha guardato due persone in faccia e le ha assunte con sé, le ha prese a sé, ha inventato in quel momento, ha svelato — anzi — in quel momento la natura dell’uomo e la giustizia intima del suo desiderio di pienezza e di felicità. Ha inventato il concetto di persona, ha mostrato che ogni singolo uomo vale non perché funzione di un corpo sociale ma perché creato e amato singolarmente e singolarmente custodito dal suo Creatore. E perché quello stesso uomo, tre anni più tardi, ha accettato di morire per difendere la libertà di ognuno di prendere la propria vita, quella vita creata, amata e custodita, e buttarla nel cesso. Perché liberamente vuole essere amato e non ha paura che noi si sprechi i venerdì sera, se un miliardo di venerdì sera sprecati sono quel che può accompagnarci a desiderare davvero di corrisponderlo.
Per questo non cederò alla tentazione intellettuale e moralista di credere che chi spreca la sua vita a basso voltaggio non sia in fondo diverso da chi queste vite a basso voltaggio vuole terminarle. Gli uni hanno le sembianze del possibile e del desiderio, gli altri quelle dell’impossibile e della morte.
Quali le più viziose, mi chiedo allora? Quali le più virtuose?