La sera prima dei fatti di Parigi ero in un piccolo teatro della mia piccola città di provincia, per una lettura di poesie. C’erano quattro giovani poeti alle prese con le parole. Musica e parole. Per la stessa ragione, probabilmente, che ha portato, in una serata come tante altre, altre persone a un concerto pop-rock. Da giorni sfoglio su internet i maggiori quotidiani francesi e britannici alla ricerca delle storie di chi è morto e di chi è sopravvissuto. Non è per una curiosità morbosa, né per una fame di conoscenza del dettaglio che possa in parte riempire la voragine delle domande. Quello che è successo a Parigi ci ferisce al cuore non perché non c’importi, in quest’era postcoloniale, delle altre tragedie che si consumano nel mondo, ma perché siamo noi, quelli del Bataclan, e delle uscite serali sulle terrazze aperte, e nei tavolini in mezzo alle strade. 



Quelli del Bataclan sono io: europei caucasici o nordafricani, che si gustano l’autunno mite un venerdì sera. Studiosi, scrittori, musicisti, architetti, camerieri, professionisti e appassionati di musica, magari cultori di un genere particolare. Professori d’arte e d’inglese. Troppi, in questi giorni, hanno parlato del nonsense di quest’Occidente fiacco come se fosse una colpa. In realtà è un prodotto della storia, e, come per tutto il resto, a chi ci è nato in mezzo non resta che una cosa da fare: provarci. Lo dice Testori del teatro, per dirlo della vita: “Il faut tenter de vivre… Che la risposta non venga non autorizza a non tentare la domanda e a non provocare la sordità e la bocca chiusa dell’essere; del destino. Può darsi che, almeno nel punto dell’agonia, quella bocca si apra”. 



Provarci; fare come se tutte le cose che viviamo (la cultura, la musica, i piccoli piaceri del festeggiare il compleanno insieme agli amici, anche se non si è più bambini, dell’andare a un concerto rock di una band trendy, anche se non si hanno più vent’anni) ci portassero più vicini alla vita, anche se, per Eliot, questa lunga corsa ci porta “più vicini alla morte, non più vicini a Dio”. In questa prossimità delle cose ultime, che ci vede sempre in fuga come ciclisti solitari sull’Iseran, abbiamo scordato la pazienza.

La pazienza del guardare il prossimo che vive al nostro fianco, di cui non sappiamo niente, se non che divide la nostra stessa fatica del vivere, e che magari, come le foto delle vittime, rubate perlopiù da Facebook o da Twitter, pubblica immagini di sé sorridente, perché è così che si vorrebbe veder vivere ogni istante. Vi è mai capitato di postare una foto di voi stessi distrutti, che piangete, anche se avete il cuore preso a morsi? 



Gli stessi morsi che hanno portato altri ragazzi poco più che ventenni, per motivi che sfuggono a qualsiasi analisi o sintesi, a morire e a dare la morte. Perché sì, un dato che mi ha impressionato è che gli attentatori erano ragazzi, il più vecchio aveva trent’anni (l’età che nel vecchio Occidente è considerata ancora “essere giovani”). Avevano circa l’età di Valeria, meno anni della gran parte delle proprie vittime. Non è stato, forse, uccidere un altro sé possibile, a cui non si vuole guardare in faccia? Noi siamo quelli del Bataclan, ma potevamo essere gli altri. Non c’è quasi nessuno che se ne sia accorto. Balliamo tutti sulla lama terribile della libertà. “C’è bisogno di qualcuno che ci liberi dal male”, diceva un grande cantastorie italiano. Già, ma dal male nostro, prima di tutto. Dal male di non saper guardare in faccia l’altro. In questi fatti tragici è in ballo molto di più di una civiltà al declino: è in ballo la possibilità di restare umani.

Che è esattamente quella che la logica dei proiettili intende per prima negare. L’editorialista di Libération, che ringrazia per il pensiero ma chiede al mondo di non pregare per Parigi, perché è la religione ad averla messa in ginocchio sotto al fuoco delle pallottole, è il primo a soccombere a tale logica, ad abdicare alla categoria del possibile, che è proprio quella che il pensiero radicale di qualsiasi natura tende a negare nella prassi, quand’anche la abbracci in via teorica. È triste pensare che anche questo slancio umano di desiderio di comunione planetaria, senza credo e senza schemi (benché con un moto di superficie più che verticale, con l’hashtag #prayforParis), debba essere allontanato in nome della religione più pericolosa di tutte, quella di un laicismo che non è affatto laico, e che si sente titolato ad una visione superiore. Senza pazienza, dunque senza passione, e senza compassione (è l’etimologia a dircelo).

Nell’aula dove entro ogni mattina, da due mesi a questa parte, ci sono quelli che potrebbero essere i figli di Parigi: nordafricani, turchi, nigeriani, cinesi, immigrati da mezzo mondo, italiani di prima generazione e figli di coppie miste. Mi hanno chiesto che cosa voleva dire Isis, e la discussione che ne è seguita ha provocato una valanga di testi e disegni. Non ce ne è stato uno che parlasse di Parigi. Parlavano tutti di sé, del mondo e della volontà di essere felici e in pace con tutti, anche se non sanno che cosa significhi. Io non so che cosa saranno da grandi, ma so che cosa posso seminare oggi.

Preferisco pensare che non sia tutto una menzogna, che le facce che ho davanti a me ogni giorno siano più reali dei trattati infiniti sui mali dell’islam e della religione. Qualche giorno fa è girata su varie testate europee online un’intervista al professor Wael Farouq, che diceva proprio questo: i terroristi si scagliano contro la bellezza, perché la bellezza è una cosa che tutti capiscono, che tutti attrae e che a tutti porta felicità. Qualunque cosa questi significhi, declinato nelle varie culture. Ce l’aveva ben chiaro Khaled Asaad, l’archeologo che amava Palmira e che è stato, per questo suo amore alla verità su cui ha investito tutta la sua vita, ucciso a ottant’anni. Martire della Bellezza.

È questa Bellezza che possiamo ancora cercare, fianco a fianco, e costruire una cattedrale, nel cuore d’Europa, di tentativi di essere felici. Come chi era andato venerdì al Bataclan, per una promessa. Sperando magari, come diceva il grande Luigi Ghirri, che ritorni ad entrare nelle fotografie quell’omino in bilico su un burrone che la moderna idolatria del paesaggio perfetto ha cancellato, sperando, con lui, “che Cézanne avesse torto quando diceva: ‘tutto sta scomparendo, bisogna far presto se si vuole vedere ancora qualcosa’”. La stessa urgenza dichiarata da Sebastien, uno dei sopravvissuti al Bataclan, che dice che, davanti alla bocca del kalashnikov, non c’era niente di più serio del fatto di essere vivi. E allora, vecchia Europa che tanto ti dibatti, e che sei in guerra, rialzati, metti il tuo vestito più bello e balla la tua musica millenaria. Torna a guardare le tue cattedrali di pietra e i tuoi tramonti di fuoco. Apri le braccia, come hai sempre fatto, a chi arriva e vuole solo provare a vivere.

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