Nell’emergenza dei movimenti migratori dell’ultimo anno la Turchia si è trovata a ricoprire un ruolo di primo piano, e il presidente Erdogan lo ha giocato nel migliore dei modi: più di un paese della Comunità ha innalzato muri, steso filo spinato, ridotto o sospeso la libera circolazione di uomini e merci; la Turchia ha aperto le porte a oltre due milioni di profughi dalla Siria, ponendosi come prima interlocutrice nelle trattative internazionali sull’emergenza profughi e, sul versante opposto, sui rischi della deriva terroristica in Medio Oriente. A conferma di ciò, è noto che la cancelliera Merkel (già in difficoltà sul fronte interno per la politica di apertura ai profughi, che ha generato qualche mal di pancia anche tra i colleghi di partito) avrebbe in qualche modo forzato la mano dei colleghi europei, promettendo tre miliardi di euro alla Turchia per poter gestire “in casa” l’emergenza, limitando l’esodo verso i Balcani e il nord Europa.



Soprattutto la Merkel avrebbe promesso al governo Erdogan, come “sovramercato” ai tre miliardi, la riapertura, nel 2016, delle trattative per l’ingresso della Turchia in Europa. E rieccoci dunque, proprio dopo i fatti di Parigi, a riflettere ancora su cosa sia questa Europa, mai così incerta dai tempi della Guerra Fredda, con i confini sbarrati, con la paura negli occhi. Questo è un momento propizio per una riflessione di questo genere. Perché quando si rischia di cedere alla paura, quando qualcuno mette in discussione con il sangue il nostro modo di vivere fino alle radici stesse della nostra quotidianità, allora è il momento di ripartire da ciò che siamo, per capire quali sono i punti fermi, gli architravi ai quali tenerci saldi, per non perderci, o, peggio ancora, per non cadere nella tentazione di rispondere alla violenza con la violenza, le politiche dell’odio, del razzismo, delle chiusure. 



Il Nobel per la letteratura Orhan Pamuk in una delle primissime pagine di Istanbul descrive la casa della sua infanzia, e ricorda la presenza, nelle dimore di molte famiglie benestanti nella Turchia degli anni Cinquanta e Sessanta, di soggiorni arredati con divani, pianoforti e credenze, che egli definisce quasi dei piccoli musei, o degli scrigni intoccabili, che mettevano a disagio i più piccoli, sempre costretti a muoversi in uno spazio non proprio, e facevano parte di quel processo di occidentalizzazione voluto e iniziato da Mustafa Kemal: “uno che non digiuna durante il Ramadan si sente meno in colpa tra credenze e pianoforti rispetto a uno che in casa si deve stendere su divani e cuscini”.



Il “lungo regno” di Erdogan mette in luce evidenti discontinuità con il nazionalismo laico di Ataturk: prima fra tutte, ovviamente, l’essere leader di un partito, l’Akp, che, nato come movimento conservatore ma filo-occidentale e addirittura vicino al Ppe, si è progressivamente evoluto in una direzione euroscettica, più o meno apertamente panislamista e, in particolar modo, autoritaria e antidemocratica, come ampiamente dimostrato nelle sanguinose repressioni delle proteste di Gezi Park nel 2013, nella temporanea soppressione di Youtube e Twitter nel 2014, in una linea di riforme (limitazioni alle interruzioni di gravidanza, restrizioni ulteriori al consumo di alcolici) che pare andare nella direzione di una progressiva “islamizzazione” della laica Turchia. 

Al di là delle chiare differenze, un’analisi appena più attenta non può nascondere come Erdogan, forte dell’ennesima conferma elettorale da poco ricevuta, si ponga in continuità con alcuni aspetti fondanti del padre della nazione turca. In primo luogo, interpreta il ruolo dell’uomo solo al comando, il leader carismatico in cui le masse possano identificarsi, al di là del bene e del male. In secondo luogo, il motto dell’Akp è “una nazione, una bandiera, una terra, uno stato”: il partito cavalca il mito della grande nazione turca, unica al di là delle differenze interne, che vanno, nel caso, azzerate, come dimostrato dal pugno di ferro usato con i separatisti curdi.

Pamuk aveva visto bene: i soggiorni, gli abiti occidentali, sono state sovrastrutture che non hanno cancellato le tradizioni, che ora, come forse è giusto e inevitabile, riemergono a mostrare quanto la Turchia sia figlia di una cultura e una storia altra rispetto a quella dell’Europa. Si potrà piuttosto obiettare che queste radici vengono fatte talvolta emergere con fini propagandistici e di mantenimento del potere, deviandone la natura, violandone la profondità, profanandone la bellezza. 

Erdogan, anche nelle ultime elezioni, con grande sapienza ha moltiplicato le dichiarazioni, le frasi da comizio poi quasi sempre smentite ma, nell’immediato, buone per scaldare gli animi dello zoccolo duro del conservatorismo islamico turco: tra tutte, ha destato forte impressione la volontà (che in effetti già nel 2014 era arrivata sotto forma di mozione fino al parlamento di Ankara) di trasformare il museo di Santa Sofia nuovamente in moschea. Ancora nel maggio scorso migliaia di persone hanno manifestato davanti alla basilica per chiederne la riapertura a luogo di culto musulmano. Infine, proprio Erdogan, nel 2013, avrebbe dichiarato che, in occasione dei festeggiamenti del 29 maggio per la commemorazione della conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II, le celebrazioni si sarebbero svolte non più sul Corno d’Oro, ma proprio in Santa Sofia, nella quale lui sarebbe entrato come capo di Stato, ponendosi in continuità con Maometto II che entra nella chiesa dopo la caduta delle Grandi Mura e i tre giorni di saccheggio.

Per un occidentale questi fatti possono apparire preoccupanti, forse, ma i contorni di quello che alcuni già da tempo chiamano il “piano Erdogan” per Santa Sofia assumono ben altri toni se si tiene conto di cosa la conquista di Costantinopoli-Istanbul abbia significato per l’immaginario dei turchi in primis e, più in generale, per il mondo musulmano: fu l’ultima grande conquista, l’ultimo glorioso successo (l’assedio di Vienna del 1683 non andò a buon fine) ai danni dell’occidente cristiano. In secondo luogo significò la fine della scomoda presenza greca, latina e cristiana nel “gran mare” dell’impero che Maometto II ereditò dal padre Murad. In terzo luogo la conquista di Costantinopoli fu una vendetta, per l’onta subita dalla prima ondata arabo-musulmana, infrantasi sotto le mura della Città, nel 674, dove trovò la morte il vessillifero di Maometto, Abu Ayyub. Ma soprattutto, la conquista di quella che sarebbe divenuta Istanbul costituirebbe la realizzazione della volontà del Profeta stesso, a cui sono attribuite queste parole in un hadith di recente ripreso dai terroristi del califfato islamico per i loro deliranti proclami: “Conquisterete Costantinopoli, poi farete un’incursione contro Roma e Dio vi darà la vittoria, perché, se ciò non fosse vero, io sarei presso di Lui tra coloro che dicono menzogne”.

In conclusione, sembra davvero che l’apertura da parte della Germania a una nuova discussione per l’ingresso della Turchia in Europa muova, ancora una volta, da un presupposto non solo improprio, ma oggi pericoloso: ossia che l’Unione Europea sia una struttura principalmente economica, secondariamente politica e, solo in ultima, e del tutto marginalmente, culturale. Se così stanno le cose, credo che il destino di questa struttura, ben lontana dall’essere un organismo, sia già segnato. Se comunque si procederà in questa direzione, come già emerso in altre occasioni, i punti fermi da cui partire nelle richieste al governo turco dovranno in ogni caso essere i seguenti.

In primo luogo un “ritorno normativo” in senso laico, nel rispetto dei diritti umani, della libertà di comunicazione e di stampa, della libertà di religione.

In secondo luogo dei significativi passi in avanti nel rapporto con le minoranze curde, che proceda almeno dalla sospensione degli attacchi militari contro i peshmerga, in prima linea, tra l’altro (con buona pace e sostegno economico degli Usa), contro l’avanzata dello Stato Islamico in Siria e in Iraq.

Infine, ma di sicuro non meno rilevante, resta ancora sul tappeto, come ben dimostra l’incriminazione del 2005 proprio di Orhan Pamuk per il reato di “vilipendio dell’identità nazionale”, la questione del genocidio armeno, non solo non riconosciuto dalla Turchia, ma ancora censurato, al punto che quando nell’aprile del 2015 Papa Francesco ne ha fatto menzione, il governo turco ha ritirato il proprio ambasciatore dal Vaticano, convocando al tempo stesso l’ambasciatore della Santa Sede presso il ministro degli Esteri per chiarimenti. Solo quando il governo turco avrà fatto questi primi tre passi in direzione dell’Europa multietnica, multireligiosa, democratica e rispettosa delle minoranze, allora avrà un senso capire se esiste uno spazio di condivisione possibile nell’ecumene-Europa, auspicabilmente sempre più “delle genti” e sempre meno “delle economie”.