Nostalgia dell’essere, brama di vita, tensione spasmodica al vero, la Bellezza (“la bellezza è Bellezza, e non mente“, da Guinea), questi i nodi, il cuore della produzione poetica di Pasolini, insieme alla denuncia lucida del nuovo potere. Dichiara a Fernando Camon nel ’65: “il fondo del mio carattere non è il malessere, bensì la gaiezza, la vitalità… (…) Intendo per vitalità ‘quell’amore di vita’ che coincide con la lietezza. E gaia, vitale, affettuosa è nell’intimo la mia natura: son le continue angosce oggettive che ho dovuto affrontare che hanno esasperato gli aspetti del mio malessere” (Il mestiere di poeta, Lerici, 1965). 



Tutta la sua poesia, dunque, si articola in forme continuamente nuove, originali sperimentazioni poetiche e tematiche; nei primi testi friulani erano i temi ossessivi del paese, del corpo, della giovinezza e della sensualità, uniti ad una visione quasi “mitica” della natura e della storia; luoghi in cui la parola può sgorgare fresca e primigenia, fiorita dalla meraviglia di un mondo nuovo che si apre. Nella seconda tappa, segnata dalle Ceneri di Gramsci, prevalgono temi e valori civili e politici, in una situazione vissuta di rabbia e delusione, mai, però, dominante; in questi testi il poeta esprime la sua discesa “nel magma” dell’esistenza, accettando il caos del presente, nel quale si attende una nuova “Preistoria”, un nuovo inizio. E’ la fase che Pasolini definisce, con un potentissimo ossimoro, di “disperata vitalità”, espressione che dà titolo a una composizione del ’64 e che termina, quasi al cospetto della morte, con un drammatico dialogo: “Dio mio, ma allora cos’ha/ lei all’attivo? …”/…, io? Una disperata vitalità



Deriva da tale atteggiamento la volontà di non sottrarsi all’impegno, la volontà “di restare/ dentro l’inferno con marmorea/ volontà di capirlo“. Come scriveva nel ’57, negli anni dei primi romanzi ambientati nelle borgate di Roma, scenari di un dolore universale (come ben si vede nella scena finale di Accattone, nel corpo disteso, come Cristo, di Tommasino). “Senti come in quei lontani/ esseri… quella vita non è che un brivido;/ … senti il mancare di ogni religione/ vera; non vita, ma sopravvivenza/… è un brusio la vita… e così conclude “Ma io, con il cuore cosciente/ di chi soltanto nella storia ha vita/ potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita? (Le ceneri di Gramsci)



Di quegli stessi anni risultano emblematiche, oltre alle opere teatrali tratte dalle tragedie greche e superbamente tradotte, le produzioni cinematografiche, in particolare Il Vangelo secondo Matteo (1963). Opere animate da un sentimento struggente, da una pietas profonda verso l’umano, il cui eco si leggeva nell’intervista del ’61, dopo il suo viaggio: “dall’India si torna grondanti, bagnati, sporchi di pietà” (Paese sera, 25 novembre 1961) o nelle pagine di Diario, in cui, seguito di nascosto dalla Morante, va a vedere dove sarebbe stato accudito un bimbo povero di Bombay da lui inviato, un ricovero che sperava “simile a quelli della Madre Teresa” (Il colore dell’India, 1965).

E’ un’umanità febbrile e quasi primitiva che egli porta sullo schermo, uomini carichi di bisogni elementari, mai domi; in particolare nel Vangelo emerge la forza del realismo pasoliniano, lo stile dell’opera è quasi elementare, coincide con il divenire stesso dei fatti, degli eventi e delle parole che scorrono sullo schermo, persino negli episodi sui miracoli fino alla scena della Resurrezione (scena che inizialmente Pasolini non aveva filmato), la forza della realtà non viene mai meno. Gli episodi evangelici accadono nella vita concreta, in paesaggi comuni, così che il sacro s’insinua ed emerge nella quotidianità stessa, come nella scena iniziale, prima dell’apparizione dell’angelo a Giuseppe, dove vediamo una turba di bambini intenta a giocare, preannuncio di un’altra presenza. 

Cos’è, dunque, e in cosa consiste il realismo di Pasolini? Ci sembra che il poeta sia mosso, sia spinto continuamente da una passione, dall’amore all’essere, al reale così com’è (stupisce il suo rispetto profondo nelle risposte che dà ai lettori nelle rubriche tenute negli anni 60 e 70 e poi raccolte in Caos e Lettere luterane); una nostalgia dell’essere, una nostalgia del sacro, come è stata definita, così ancora oggi irriducibile (e avversato) e scandaloso per il nuovo conformismo del nostro Paese e, pure, di tutte le società occidentali.

E’ questa stessa passione che gli fa giudicare in modo durissimo la società italiana contemporanea (anche quelle forze da sempre all’opposizione politica come nei i movimenti giovanili di quel tempo); a partire dalle contraddizione della vita personale egli legge nei conflitti della storia di quegli anni l’affermarsi di una rivoluzione nuova. In Italia si stava  creando una nuova società e un nuovo tipo umano, prodotto dalla “grande omologazione” da parte di un potere capace di stravolgere tutta la tradizione di un popolo e il tessuto sociale di un mondo millenario (quale neanche il fascismo, scriverà negli ultimi anni, era stato capace); scompare la cultura autentica di un popolo e ciò da cui vien sostituita è un mondo “plastificato”, “televisivo”. Preistoria d’una realtà oggi sotto gli occhi tutti e di cui siamo consumatori incoscienti.

Tuttavia quella passione permane, è quel grido shakespeariano che fa dire — pochi giorni prima della morte dell’attore — da Totò, una maschera tragica, al finale dell’episodio Che cosa sono le nuvole (1967): “Ah, straziante, meravigliosa, bellezza del creato“.

Una vitalità disperata, una passione travolgente che, in alcuni momenti, sembra proprio trascinare Pasolini e travolgerlo, come si documenta nei film della “Trilogia della vita” al finale degli anni 70 che, con lucida lealtà ed intelligente onestà umana, fu abiurata pubblicamente a pochi giorni dalla morte (l’articolo del giugno è pubblicato postumo sul Corriere il 5 novembre 1975); sono i mesi in cui stava terminando l’ultima opera filmica, “Salò”, tutta incentrata sulla perversione del potere e sulla sua forza distruttiva della persona, quasi un ultimo grido, anzi l’urlo di una umanità che non ritrovava più attorno risposta alle proprie ferite.

(2 – fine)