Sarà pure un cliché quello secondo il quale l’Italia è il più bel paese del mondo — ma c’è una buona possibilità che non sia molto lontano dal vero (e del resto, sono molti i clichés che hanno una base realistica). Comunque, qui non si parla tanto delle innegabili bellezze italiane oggettive (d’arte e di natura), quanto piuttosto della coltivazione italiana della bellezza, autoctona e non.
È probabile infatti che l’Italia sia il paese al mondo dove è possibile in ogni stagione dell’anno visitare il maggior numero di mostre d’arte, sparse per ogni dove. E va detto inoltre che gli italiani sono particolarmente lodevoli e notevoli nel, diciamo così, esportare se stessi come cultori della bellezza; per dire: è difficile trovare una comitiva d’italiani che, il giorno dopo essere atterrati a New York, non siano già in giro a visitare mostre e luoghi esteticamente notevoli (come la “High Line”). Tutto ciò naturalmente non esime dal ragionare con attenzione (anche se non necessariamente con la tecnica dei critici d’arte) su questi infiniti spettacoli italiani. Qualche esempio?
“Bellezza divina tra Van Gogh, Chagall e Fontana”, al fiorentino Palazzo Strozzi, è forse una delle mostre più interessanti della stagione. Perché, interessante? Prima di tutto, perché documenta la grande vitalità — italiana e non — dell’arte cosiddetta “sacra” anche nel periodo tra metà Ottocento e prima metà del Novecento che certi luoghi comuni sul modernismo (non tutti i clichés sono realistici) vedono come il trionfo schiacciante del laicismo. Intendiamoci: le immagini che si possono ammirare a Palazzo Strozzi sono “laiche” nel senso migliore del termine; vale a dire: re-interpretano il messaggio cristiano (e, nel caso di Chagall, ma non solo, più precisamente il messaggio ebraico-cristiano) con grande libertà di pensiero e di espressione. E non potrebbe essere altrimenti! si esclamerà (o almeno: mi auguro che si esclami…). Però vien da pensare, leggendo la didascalia accanto alla Crocifissione (1940-1941) di Renato Guttuso (in cui si accenna a certe reazioni moralistiche in quegli anni, a proposito della Maria Maddalena nuda che là appare, come se esse appartenessero definitivamente al passato): che cosa succederebbe se un pittore contemporaneo, soprattutto un pittore italiano, presentasse oggi una raffigurazione ugualmente franca?
Ma il problema su cui riflettere non è tanto quello della moralità o moralismo; e nemmeno quello, per quanto importante, delle “riscoperte” (che non sono i tre nomi — Van Gogh, Chagall, Fontana — elencati per comprensibili esigenze di “cartellone”, nel titolo della mostra; ma casi per esempio come quello di Domenico Morelli, e delle eccezionali riletture evangeliche dell’inglese Stanley Spencer). Il problema di fondo che la mostra sulla “Bellezza divina” non risolve ma apre a futuri sviluppi (ed ecco la ragione del suo particolare interesse) è: che cosa accade all’arte sacra nel periodo della pittura contemporanea in quanto pittura non-figurativa?
Casi come la singola tela di Emilio Vedova del 1953 (quasi il solo esempio nella mostra di un’opera veramente astratta, perché i lavori di Lucio Fontana là esposti non sono veramente pertinenti alla questione), non bastano certo a chiarire il problema (anche se chi a Venezia ha visitato la Scuola di San Rocco alcuni anni or sono ricorda l’effetto suggestivo delle simili tele di Vedova là esposte, in evocazione della sua giovanile e decisiva scoperta della pittura di Tintoretto).
Il problema, ripeto, è assai vasto, anche senza scomodare gli antichi dibattiti nell’Oriente bizantino fra gli avversari delle immagini sacre (gli iconoclasti) e i sostenitori delle stesse (gli iconòduli); o, più modernamente, le meditazioni sulle icone del filosofo mistico Pavel Florenskij. Si potrebbe dire che il passaggio dalla modernità del figurativo alla contemporaneità del non-figurativo è, dal punto di vista emerso nella mostra fiorentina, anche il passaggio da un’arte propriamente sacra a un’arte generalmente spirituale; e si può essere confortati in questa ipotesi dal libro del grande pittore astrattista Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte. Quel libro, snello e intenso, scritto nel 1909 e pubblicato nel 1911, dunque contemporaneo fra l’altro della grande esplosione del futurismo marinettiano, è ancora fondamentale. Ma la sostanziale identificazione, che Kandinsky opera, del vasto concetto di spiritualità con quello ancora più ampio di interiorità non fornisce indicazioni specifiche su come orientarsi nella lettura della pittura (e scultura, ecc.) contemporanee.
Del resto, tale orientamento non può che provenire dalla visione di concrete opere d’arte (e lo stesso Kandinsky è molto chiaro a questo proposito). E allora, quale luogo più adatto per questa ricerca della spiritualità nell’arte (al di là della categoria del sacro, la quale potrebbe risultare restrittiva) che l’attuale edizione, la numero 56, di quella che resta la più importante esposizione internazionale d’arte: la Biennale di Venezia? La mostra è ancora affollata di visitatori in queste sue ultime settimane d’apertura, nell’autunno che è la stagione veneziana per eccellenza; e una visita alla Biennale vale sempre la pena di farla (le critiche generiche rischiano di essere semplicemente snobistiche). Ma va pur detto che la versione di quest’anno non è entusiasmante, e non solo perché non si vede essenzialmente alcuna traccia di spiritualità, comunque la si concepisca. Si pensi infatti alla spiritualità come al senso di un entusiasmo, a una problematizzazione autentica, a uno sforzo di trascendimento (e questa è, chiaramente, una caratterizzazione prudentemente minimale e non-dogmatica); ebbene, è difficile vedere segni di alcun che di simile, in questa Biennale.
Del resto già il titolo, “All the World’s Futures” (Tutti i futuri del mondo) dovrebbe mettere sull’avviso; quello che si vede, purtroppo, è proprio ciò che un tale titolo connota. La mostra è insomma (con varie eccezioni) una mesticanza che vuole essere correttamente edificante. La dimensione dominante sembra essere quella dell’aggeggistica (o gadgetry, se vogliamo usare l’attuale lingua franca). Insomma, una tecnologia “morbida” come varietà marginale e aneddotica della tecnologia “dura”.
Il tutto, nel contesto della cause più alla moda, più rassicuranti: l’ecologia (gli erbari, i lapidari, le collezioni d’insetti nel padiglione Usa e in vari altri, l’albero in lenta rotazione nel padiglione francese), la vittimizzazione (si vedano i video e i ritagli di giornale nel padiglione tedesco), e tutto ciò per cui la Biennale ha già trovato il suo neologismo: Refugeeism (rifugismo), così che non si può non pensare con allarme all’imminente valanga di tesi e tavole rotonde all’insegna di questa etichetta.
Ma le eccezioni, appunto, non mancano mai e la più importante (a costo di essere accusati di sciovinismo) è quella rappresentata dal padiglione italiano. L’iperbole del suo curatore — il quale parla di un “codice genetico” degli artisti italiani — non è del tutto ingiustificata. Gli italiani qui rappresentati hanno una formazione solida e un senso della tradizione; ricercano e ricostruiscono — piuttosto che decostruire — grandi frammenti, con una serenità e severità di visione. Può non bastare per chi ricerchi “lo spirituale nell’arte” (dunque l’esplorazione dovrà continuare in altre sedi), ma può essere sufficiente per meritare una visita (ammesso che ci sia bisogno di una particolare ragione, per ripagare una visita a Venezia).