La Lettera a Hitler fu scritta da uno scrittore e poeta tedesco a Berlino nella pasqua del 1933. Prendeva occasione dal decreto del governo hitleriano del 29 marzo 1933, che metteva al bando i negozi e le attività commerciali degli ebrei. In quel marzo fatale incominciò la campagna antiebraica, le cui tappe sarebbero state le Leggi di Norimberga del 15 settembre 1935, la Notte dei cristalli del 1938, i vari progetti di “ghetti nazionali” (compreso il Madagascar!), la Conferenza di Wansee del 20 gennaio 1942, che pianificò la “Endlösung der Judenfrage”, la soluzione finale della questione ebraica. Lettera a Hitler è anche il titolo di un libro, dal sottotitolo “Storia di Armin T. Wegner, combattente solitario contro i genocidi del Novecento” (Mondadori, 2015), che Gabriele Nissim ha dedicato all’autore della Lettera, Armin Theophil Wegner, nato a Elberfeld nel 1886 e morto a Roma nel 1978.
Le sue ceneri sono state in parte disperse nel cratere dello Stromboli e in parte tumulate a Erevan, al memoriale del genocidio armeno. Pressoché sconosciuto in Italia, oramai dimenticato in Germania — ma insignito nel 1956 di una medaglia dell’Ordine al Merito del governo federale tedesco — Wegner ha attraversato avventurosamente il ‘900. Dapprima militare paramedico, di servizio nell’Impero ottomano, fu testimone attivo e documentato del genocidio del popolo armeno (scrisse al riguardo una lettera al presidente americano Wilson, pubblicata sul Berliner Tageblatt del 23 febbraio 1919) poi viaggiatore in Unione sovietica, affascinato ambiguamente dal modello comunista, ma subito dopo criticato radicalmente. A seguito della Lettera a Hitler, scritta a partire dalla sua condizione familiare — sua moglie era la scrittrice ebrea Lola Landau — fu imprigionato in vari campi di concentramento e torturato. La sua liberazione fu anche l’effetto di un memoriale di autodifesa, fortemente compromissorio rispetto alle tesi del nazismo. Riuscì a riparare a Positano, trovò un incarico come lettore di tedesco all’Università di Padova. Restò in Italia. Nel 1967 venne riconosciuto come “Giusto tra le nazioni” di Yad Vashem, l’ente nazionale per la memoria della Shoah di Israele.
E’ a questo titolo che Gabriele Nissim, presidente di Gariwo (Gardens of the Righteous Worldwide, la Foresta dei Giusti), ha dedicato il libro a questo personaggio a noi ignoto. Quello dei “giusti” è un filone che Nissim ha aperto e continua a scavare con ostinazione. Tutto dipende dal concetto di “giusto tra le nazioni”. Nella tradizione ebraica, “il gentile giusto” è il non-ebreo che rispetta Dio. Dopo la seconda guerra mondiale indica “il gentile”, cioè il “non-ebreo”, che ha agito in modo eroico per salvare la vita anche di un solo ebreo dalla Shoah. Grazie all’iniziativa di Gabriele Nissim, il Parlamento europeo il 10 maggio 2012 ha istituito la Giornata europea dei Giusti, che si celebra ogni anno il 6 marzo, il giorno della morte di Moshe Bejski, figura cui Nissim ha dedicato un libro nel 2003.
Bejski fu un magistrato israeliano — l’ultimo mestiere di un uomo dalla vita tragica e avventurosa, aiutato a sfuggire ai nazisti da Oskar Schindler — che presiedette la Commissione israeliana dei giusti, dove fece prevalere la concezione del giusto come persona che ha agito secondo la propria coscienza, non importa che non fosse sempre e in tutto un santo. Questa semplice idea ha consentito di allungare di molto l’elenco dei Giusti, sottraendone la definizione alle ideologie e ai moralismi.
Nella ricerca di Gabriele Nissim il giusto non è un santo, non è un eroe: è una persona a volte piena di ombre, di ambiguità, di compromissioni, di cecità intellettuali, spesso egoista, talora dedito più alla propria autoaffermazione che agli interessi dell’umanità. E che, al momento “giusto”, sceglie, spesso “insensatamente”, di stare dalla parte del Bene. E’, appunto, la “bontà insensata, il segreto degli uomini giusti”, che dà il titolo a un libro di Nissim del 2010. Nei libri di Nissim, i giusti non sono soltanto coloro che hanno salvato gli ebrei dall’Olocausto, ma anche gli uomini e le donne che hanno combattuto contro le politiche di genocidio. Giusto è Khaled Asaad, l’archeologo che ha difeso fino all’ultimo contro i fondamentalisti dell’Isis il sito di Palmira.
Così, dunque, anche Armin Wegner è un “giusto”, oscillante tra generosità e narcisismi, pronto a scrivere una lettera suicida a Hitler, ma anche un memoriale ambiguo di autodifesa per uscire dalle prigioni hitleriane. Soprattutto cieco di fronte al destino che attende gli ebrei, mentre Lola Landau, l’ebrea che lui ha sposato, più lungimirante, analogamente a Hannah Arendt, lo invita ad andarsene insieme dalla Germania per proteggere sé stesso e la propria famiglia. Lo farà, alla fine, dopo aver divorziato da Lola, che aveva lasciato la Germania con i suoi tre figli nel 1936, perché costretto dalla persecuzione personale, cui si è esposto, rimanendo tuttavia per una fase irrazionalmente fiducioso nella possibilità che si potesse combattere il nazismo nel nome dell’identità tedesca.
Il libro non nasce solo da ricerche negli archivi a tavolino. Alle spalle ha una lunga frequentazione con Johanna Wernicke-Rothmayer, giovane segretaria ventenne di Wegner a Roma nel 1964-65, oggi presidente della Fondazione intitolata allo scrittore. Nel libro Johanna compare come alias retorico dell’Autore nel porre domande e avanzare dubbi. Il quale ha anche avuto un lungo confronto con Mischa — il figlio che Armin Wegner ha avuto con Irene Kowaliska, apprezzata ceramista che ha operato in Italia tra Vietri, Positano e Roma — e con Sibylle Stevens, la sorella di Lola Landau. Il risultato è un libro educativo, che ricompone frammenti di storie personali e collettive sconosciute del ‘900.