Nella mia famiglia ci stiamo provando. I due ragazzi più grandi, di professione adolescenti, di ritorno da scuola ripongono i cellulari fino alle 19. Non so che cosa succeda in classe, se prendano accordi con i loro insegnanti, ma fra le mura domestiche adesso si fa così. E per il momento funziona perché il «coprifuoco» lo hanno accettato loro, con qualche mugugno, certo, ma liberamente. Infatti non sono io che ritiro i telefonini, ma sono i ragazzi che li depongono su una data mensola, sufficientemente in alto da ripararli dalle inevitabili tentazioni di ripensamento. Risultato: le chiacchiere fra noi sono rifiorite di bocca in bocca come un bella rosa primaverile sulle gote al rispuntar del sole dalle nebbie invernali. Ci avevamo ragionato insieme: non si poteva andare avanti a confondere il salotto con la hall dell’aeroporto di Linate o con il cucchiaio di minestra che andava a sbattere sulla guancia sinistra del primogenito, improvvisatosi mancino per continuare a spippolare con la destra sulla tastiera sottobanco… 



Ha ragione Fabrice Hadjajdj: il «Tablet — ha osservato il filosofo francese nel presentare il suo recentissimo libro Ma che cos’è una famiglia? — si sta sostituendo alla Tavola», con buona pace di ogni più radicata tradizione. Secoli di poesia e fiumi di inchiostro spersi sulle virtù del focolare domestico non hanno presa sulle generazioni di oggi. La tecnologia appena ci carpisce ci inguaina e senza sapere se Matrix sia effettivamente tra noi, l’effetto spegnimento della relazione è tanto più palpabile in famiglia: laddove la relazione si genera e pertanto si sviluppa con autenticità, secondo le proprie reali potenzialità.



Anatole France non si sa se fosse più serio o ironico nell’affermare che il letto e la tavola sono meritevoli della massima stima, quel che è certo è che ora come ora entrambi i mobili gloriosi devono guardarsi le spalle dalla provetta e dallo schermo. Secondo Hadjadj, la tecnica è il vero grande nemico della famiglia, perché colpisce l’umano nella carne, nella fisicità dei rapporti intesi sia come comunicazione sia ancor prima, quindi in modo ancor più radicale, come generazione. La tecnica in definitiva impedisce l’incontro.

Gli uteri in affitto, i cataloghi dei donatori di sperma e ovociti, con tutti gli incroci potenziali che la manipolazione genetica consente a preludio di preselezioni performanti, delle trasmutazioni sessuali e di gender o delle adozioni di bambini a coppie omosessuali, sono alcuni dei molteplici accidenti della nuova ideologia della tecnica da cui mette in guardia anche Papa Francesco nella sua Laudato si’.



Del resto, in assenza di Dio, per forza di cose le speranze finiscono sempre in un modo o nell’altro per tornare a riporsi nell’ormai datata programmazione del superuomo che affonda le radici nell’Illuminismo, che ha portato a esperimenti dalle parti di Berlino a metà del secolo scorso e che induce fior di scienziati contemporanei a coltivare milioni di embrioni fecondati in cellule frigorifere. 

In questi luoghi asettici, del tutto privi del tepore confidente del grembo di una madre, la vita viene congelata, alla lettera, a temperature siberiane. Sine die, insieme con le stesse speranze degli scienziati perché, piaccia o no, l’uomo del duemila come il primate paleolitico non si è fatto da solo e da solo non sa darsi quel bene che lo appaga e lo porta a compimento. Quel bene di sé, per sé e per gli altri che ogni essere umano coglie come desiderio ineludibile, possibile e, al tempo stesso, irraggiungibile nella propria finitezza, induce Hadjadj a riaffermare con forza il Mistero che precede e supera la vita di ciascuno e che informa nel suo nascere e sviluppo anche la società, a partire dal suo nucleo essenziale che era e rimane la famiglia. Potrebbe allora sembrare banale, ma non lo è: una famiglia, ogni famiglia, la famiglia è un mistero. Questa è la risposta che suggerisce e argomenta il filosofo francese nel suo libro.

Si potrebbe dire, e con le migliori intenzioni lo si è fatto, che la famiglia è il luogo dell’amore, della prima educazione, delle libertà. Hadjadj obietta che si insiste su queste caratteristiche primariamente perché si pensa al bene del bambino che di quella famiglia fa parte. «Ma così facendo – leggo dal libro a p. 22 – ci sfugge l’essenza della famiglia e, anche quando pensiamo di difenderla, affiliamo le armi che consentono di demolirla. Preoccupandoci troppo del bene del bambino, si dimentica l’essere del bambino. Soffermandoci troppo sui doveri dei genitori, si dimentica la realtà del padre e della madre. Gli elementi che abbiamo appena proposto — amore, educazione, libertà — dicono tutto tranne l’essenziale, vale a dire che i genitori sono i genitori, e che il figlio è il loro figlio». Così, la pretesa buona di edificare «la famiglia perfetta» sull’amore, l’educazione e la libertà, rischia di non fondare la perfezione della famiglia ma «l’eccellenza dell’orfanatrofio». In pratica: Hadjadj mette in guardia dal separare il bene dall’essere della famiglia, perché così facendo, sempre con le migliori intenzioni, si potrebbe favorire dei falsi valori, funzionali a falsi bisogni.

Ed è qui che il filosofo apre l’album dei ricordi per rendere onore ai suoi genitori, «che ebbero l’audacia di concepirmi all’antica su un divano rosso, a Tunisi, nel quartiere La Fayette, quando mio padre era di ritorno da numerose settimane di astinenza dopo la sua prima indagine sociologica a Menzel Abderrahmane, villaggio di pescatori sulla riva nord del lago di Biserta. Si sono desiderati e non mi hanno direttamente desiderato. Innanzitutto hanno voluto “fare l’amore” come si dice in modo maldestro, e non fare un figlio. Ed eccomi, piccolo ebreo, sempre fuori programma, e per questo mai del tutto fuori pogrom, cucciolo d’uomo che, crescendo, è completamente sfuggito alle loro aspettative (non dico al loro cuore). Non perché mi sia ribellato, ma perché ognuno sfugge a sé stesso, sin da quando è nato, e non fabbricato. Mio padre stesso è passato a poco a poco da maoista a talmudista, e mia madre da direttrice delle risorse umane, a madre ebrea». 

La nascita di Fabrice in questa cruda ma sufficientemente colorita descrizione è volutamente sfacciata e provocatoria nel renderci, anche visivamente, l’essenza a cui l’autore ci conduce: la famiglia è tale perché c’è un padre e c’è una madre da cui è generato il figlio. La tecnica potrà anche sviluppare i suoi programmi per il bene, l’educazione, la libertà presunti del singolo come del genere umano, ma non potrà dare a un figlio il padre o la madre che solo la natura, per via misteriosa, ha stabilito per lui. Spiegato con parole mie: un padre e una madre possono essere — e lo sono — molto carenti sotto infiniti aspetti, ma restano per quel figlio il padre e la madre. F. e M. non sono i migliori ragazzi al mondo, ma sono i miei figli, e in quanto genitore io li amo e so riconoscere interiormente, valorizzandola oltremisura, l’unicità che li caratterizza prima di ogni approccio razionale e di bene. Spiegato da Hadjadj: «La famiglia è sempre l’amore del vecchio coglione e del giovane idiota ed è questo che la rende così ammirevole, è questo che la rende scuola della carità».

A questo punto Hadjadj spinge la riflessione a riconoscere come, nella sua continuità, i membri di una famiglia siano figli che diventano genitori e, poi, nonni, in un contesto che suscita l’esperienza della reciprocità, della libertà pur senza indipendenza e in questo comunicarsi gli uni agli altri, nella carità appunto, ricevuta e subito donata, la famiglia si fa «luogo dell’apertura alla trascendenza», così descritta: «La differenza sessuale, la differenza generazionale e la differenza tra queste due differenze ci insegnano a volgerci verso l’altro in quanto altro. È il luogo del dono e della ricezione incalcolabile di una vita che si dispiega con noi ma anche nostro malgrado, e ci spinge sempre più avanti nel mistero dell’esistere».


Fabrice Hadjadj, “Ma che cos’è una famiglia?”, Ares, 2015, pp. 184.