Il 24 ottobre scorso è morto a Nitra in Slovacchia il cardinale Ján Korec, che ebbi la fortuna di incontrare a Bratislava a metà degli anni ottanta, quando era ancora un “vescovo clandestino”.
Dovetti prendere molte precauzioni prima di avvicinarmi al suo appartamento e, quando ci accorgemmo di una macchina a fari spenti che ci stava seguendo facemmo numerosi giri oziosi per la città.
Quando molti anni dopo vidi il film di Florian Henckel von Donnersmarck Le vite degli altri ebbi l’impressione di essere tornata al clima di quell’incontro: appena entrai, il vescovo mi fece cenno di non parlare, accese la radio a tutto volume e mi indicò un tubo di metallo avvolto nella gomma piuma che si trovava su un tavolino fra due poltrone: dovevamo parlare attraverso di esso, perché, mi spiegò, gli appartamenti adiacenti al suo erano occupati da agenti dei servizi segreti che registravano ogni parola.
«C’è un uomo a Bratislava che fa paura al partito ateista cecoslovacco. Si chiama Ján Korec e lavora come operaio in una grande fabbrica. Benché sofferente di asma polmonare è obbligato a compiere lavori pesanti: caricare e scaricare tutto il giorno grossi bidoni di catrame. Quando le forze lo abbandonano non può aspettarsi nessuna compassione, perché è un cittadino di terza categoria: sui suoi documenti c’è il marchio di condannato per “tradimento della Patria”». Così scrivevano di lui i giornali esteri in occasione del suo XXV di episcopato nel 1976.
Era stato ordinato sacerdote clandestinamente nel 1950 e nel 1951, per volere di Pio XII, a soli 27 anni era stato in segreto consacrato vescovo. Lavorò in fabbrica come operaio per nove anni in cui svolse la sua missione di sacerdote e di vescovo semplicemente essendo il fratello di tutti. Venne arrestato nel 1960 e condannato a 12 anni di carcere per tradimento. Anche in carcere era l’amico di tutti: celebrava nascostamente la Messa tutti i giorni ed erano soprattutto i giovani a seguirlo. Ma l’esperienza più dura fu l’isolamento: «Sicuramente fu questa la più terribile delle punizioni. Tuttavia la necessità rende l’uomo ingegnoso cosicché avevo trovato un sistema molto semplice per rompere l’isolamento. Immaginavo di fare gli esercizi spirituali. Mi facevo un programma giornaliero ben dettagliato ed intenso. Cominciavo al mattino con una buona ora di meditazione, proprio come si faceva in convento. Quindi, la Santa Messa. Per questa avevo soltanto pane e vino: ma ciò bastava a procurarmi tanta gioia. Dopo la Santa Messa cominciava il programma di studio: ripassavo a memoria testi di teologia e di filosofia, discutendo ad alta voce come se mi trovassi all’università, davanti ai professori. Quando mi sentivo stanco mi distendevo con canti religiosi. Poi continuavo a studiare e pregare. Arrivava la sera senza che io avessi potuto svolgere tutto il programma che mi ero fissato. Quando poi, dalla cella d’isolamento, venivo trasferito di nuovo nella cella comune, mi sentivo spiritualmente più forte come se avessi realmente compiuto un corso di esercizi spirituali».
Riabilitato nel 1968, durante la Primavera di Praga, in seguito ad un’amnistia generale, uscì dalla prigione gravemente ammalato. Riuscì ad andare a Roma, dove ricevette da Paolo VI le insegne episcopali, che mi mostrò con grande emozione: erano il pastorale, la mitria, l’anello e il pettorale che il Pontefice aveva usato quando era vescovo di Milano.
Nel 1969 un nuovo processo riabilitò totalmente mons. Korec. Uscito dall’ospedale, lavorò prima come netturbino a Bratislava e poi in una fabbrica di catrame. Ma la sua salute crollò. Offriva la sua prima ora di lavoro per il papa, la seconda per il suo vescovo, la terza per i giovani, e così via. Ogni ora aveva la sua intenzione spirituale. Nel 1974 era stato nuovamente arrestato per scontare il resto della pena. Scarcerato ancora per motivi di salute, aveva perso l’impiego di spazzino e aveva ripreso il lavoro di scaricatore di barili di catrame in un’industria chimica.
Il nostro fu un colloquio molto lungo ed intenso, ma anche molto amichevole, in cui toccammo i punti più importanti della vita della Chiesa in Slovacchia.
Lo avevo incontrato il giorno precedente un pellegrinaggio al santuario mariano a Nitra, che vide la partecipazione di migliaia di fedeli, nonostante le difficoltà imposte dal regime. Quando uscimmo da casa sua vedemmo di nuovo avvicinarsi la macchina a fari spenti che ci aveva seguito a lungo. Il giorno dopo sapemmo che il vescovo era stato fermato per 48 ore per impedirgli di andare a Nitra, forse i servizi segreti avevano aspettato che ce ne andassimo per procedere all’arresto senza testimoni e per di più stranieri.
Nel 1987 rilasciò la sua prima intervista, pubblicata dalla rivista “L’Altra Europa”. Parlando della sua vita disse: “Non cesso di ringraziare Dio perché non mi sono mai disperato. E poi perché non avremmo dovuto dare anche noi in Slovacchia una testimonianza di gratitudine per il dono della fede ricevuto 1100 anni fa e una testimonianza di amore al bene del popolo attraverso una vita più dura? Sì, la mia vita è stata dura, soprattutto quei 24 anni vissuti da operaio sotto la pioggia e la neve…Ma né lo studio della filosofia o della teologia, né la preparazione di prediche o discorsi, mi avrebbe potuto far capire che cosa significhi la fedeltà a Dio come me lo ha fatto comprendere la fatica di restargli fedele dentro le condizioni della vita. (…) Non ho mai desiderato (e non lo desidero neppure oggi) vivere una vita diversa da quella che ho vissuto”.
Incontrai ancora il vescovo Korec poco dopo il venerdì santo di Bratislava, nel 1989. Quell’incontro fu l’occasione per porre al vescovo Korec alcune domande e per chiedergli un giudizio su quegli eventi.
“La petizione firmata sia da cattolici che da non credenti è stata innanzitutto una manifestazione di grande coraggio civile e una grande espressione di fede. (…) di fronte all’opinione pubblica in patria e all’estero questa è stata la prima azione pubblica di autodifesa dopo 40 anni di repressione (…). Di fronte al brutale intervento della polizia contro uomini, donne, ragazzi e bambini che tenevano nelle mani solo il rosario e una candela, i fedeli hanno mantenuto un atteggiamento di grande dignità (…) benché fossero bagnati fradici per l’acqua degli idranti e dei cannoni ad acqua” .
Il 6 febbraio 1990 Giovanni Paolo II lo nominò vescovo di Nitra. In una lettera inviata al papa il 25 marzo del 1990, dopo aver ribadito la totale obbedienza al successore di Pietro e ringraziato il papa per il dono della croce pettorale, rilevava i 38 anni di fedele missione secondo le istruzioni di Pio XII avute nel 1951 e gli ultimi dieci anni secondo le indicazioni di Giovanni Paolo II, di cui si diceva fedele ed umile seguace.
Nella sua autobiografia, ricordando gli anni del carcere e l’esperienza della “Chiesa clandestina” cecoslovacca, scrive: “Era una grande lotta di tutta la nazione e di tutta la Chiesa per la fede, per il vangelo, per i valori del cristianesimo e per il cuore di noi tutti — per il nostro futuro di cristiani”, e in tal modo consegna un prezioso “insegnamento per il futuro”: ogni totalitarismo, palese o subdolo, si sconfigge facendosi liberi con la commovente semplicità della verità.