Credo che abbia ragione il cardinale Kasper a sostenere che questo papa sia un mistico ad occhi aperti ed un profeta, perché solo un profeta e un mistico ad occhi aperti poteva andare in Africa ad anticipare l’apertura della porta dell’Anno Santo nella cattedrale di Bangui, indicando al mondo intero dove si entra nel “regno di Dio”, nel bisogno umano di giustizia e di pace, se vogliamo davvero metterci mano e non lasciarlo “alla fine dei tempi”. In Africa, in «una terra che soffre la guerra e l’odio, l’incomprensione, la mancanza di pace», e che in molti Paesi da decenni «sta passando attraverso la croce della guerra».
Ma proprio questo segno singolare del suo pontificato, mistica e profezia, ne fa, come sempre Kasper ha fatto notare, «un papa molto politico, nel senso più nobile e globale del termine», un Papa la cui «polis è il mondo, proprio come il popolo di Dio corrisponde all’intera umanità».
E tra i tanti gesti “politici” di questo straordinario viaggio in Africa due si stagliano su tutti gli altri: l’apertura della porta dell’Anno Santo nella cattedrale di Bangui e la visita alla moschea di Kaudoukou prossima al famigerato km 5, dove rischi di essere ammazzato se passi da una parte all’altra.
Bangui, che con l’apertura dell’Anno Santo, anticipando in Africa il Giubileo della misericordia, il Papa ha fatto diventare «la capitale spirituale del mondo». E il perché Francesco l’ha spiegato in aereo, nel viaggio di ritorno. Molte terre e paesi hanno conosciuto e conoscono ingiustizia, ma «l’Africa è vittima», è sempre stata vittima, «sfruttata da altre potenze». E questo non è solo il passato della tratta degli schiavi verso l’America, ma il presente di un modello di sviluppo che depreda interi paesi senza in nulla contribuire al loro sviluppo.
«L’Africa è martire, martire per lo sfruttamento. Quelli che dicono che dall’Africa vengono tutte le calamità e tutte le guerre non capiscono forse il danno che fanno all’umanità certe forme di sviluppo. E’ per questo che io amo l’Africa, perché l’Africa è stata la vittima di altre potenze», ha detto il Papa in aereo. E più chiaro di così non poteva essere. Perché l’Africa è la più eclatante evidenza geopolitica di un modello di sviluppo che sta devastando il pianeta e gli sta rubando il futuro; l’inequità senza pudore di dinamiche economiche globali che stanno uccidendo la speranza di interi popoli, mettendo in crisi l’orizzonte stesso del futuro per tutti.
Con il viaggio in Africa, è come se il Papa avesse messo sotto gli occhi del mondo l’enciclica Laudato si’, se è sostenibile che il 17% della popolazione del globo possieda l’80% delle ricchezze, e quanto ancora sia possibile rimandare le decisioni che chiede l’emergenza ambientale, su cui in questi giorni a Parigi ci si sta accapigliando in un’atmosfera da ultima chiamata, anche per chi fa la parte del leone nell’economia globale, perché l’emergenza ambientale ha questo di “buono”, che è “democratica”, e come piove sui giusti piove altrettanto sugli ingiusti.
L’altro grande momento “politico” del viaggio è stato l’incontro con gli imam musulmani nella moschea di Kaudoukou, dove il Papa, come all’Angelus dopo Parigi, ha voluto ricordare che chi uccide in nome di Dio ne sfigura il volto e ne sequestra il nome per coprire interessi e motivazioni che con Dio non hanno nulla a che fare. «Dio è pace», e come ha ribadito sull’aereo di ritorno il fondamentalismo e la violenza religiosa sono “idolatria”, che ci fa perdere «la carta d’identità» del nostro comune essere tutti figli di Dio. Che il dio unico dei monoteismi abramitici è il dio unico dell’unica umanità eguale in ogni uomo; è il monoteismo della fratellanza. E se si riduce al dio unico solo di qualcuno che ne rivendica il monopolio confessionale è un dio tra tanti, un idolo pericoloso nelle mani sanguinarie di chi ne infanga il nome; e del dio, del Dio unico “padre e madre dei viventi”, non ha niente se non i tratti sfigurati dell’uomo che odia l’altro uomo.
Insomma un viaggio tutto politico questo in Africa del Papa, di un Papa che venendo dal Sud del mondo ha tutta la credibilità, sugli scenari della terza guerra mondiale a pezzi, per farla questa politica del “bene comune”, ed è forse anche l’unico che la può promuovere.