«Deve arrivare a Testori». Questo pensai, oltre a ringraziare Dio per il dono degli attori, la prima volta che ebbi ad assistere a una performance teatrale di Fabrizio Gifuni, ne Lo straniero di Camus, testo noto per quello che è stato definito da Roland Barthes il “grado zero della scrittura”. E io lo aspettavo alla prova della scrittura testoriana, tutt’altro che grado zero!, tutta sempre sopra tono. Lo aspettavo, perché in quell’interpretazione mirabile di fatale equilibrio, ogni tanto qualcosa in lui sussultava. In quegli scatti, tutti nervi, tendine, sangue, vibrava per me la grande promessa di un incontro che prima o poi avrebbe dovuto avere luogo.
Il luogo, appunto, per ogni testoriano, ha del mitico: il teatro Franco Parenti, nato come Teatro Pier Lombardo nel 1972 da quel felicissimo incontro tra Giovanni Testori, Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah, ora straordinaria direttrice di questo punto aggregante della vita milanese. L’occasione, la lettura del primo capitolo de Il Dio di Roserio, a coronamento della seconda edizione del Premio Testori. Dopo un pomeriggio permeato in ogni suo poro dallo spirito del grande scrittore lombardo — dalla scelta di impostare le presentazioni dei premiati in workshop paralleli a quella di premiare un saggio di storia dell’arte nella categoria letteraria —, alle 21 c’è il gran finale. Attorno una sala gremita. Scena semivuota: una sedia, uno sgabello, un leggio. Molto gifuniano, penso: perché tutto è nel corpo. E molto testoriano: «La scena è tutta e solo in loro, le parole; loro, s’incaricheranno di farla essere e, appunto, costituirsi: edificio ben più solido e vero di tutti i possibili trucchi e trucchetti», aveva detto Franco Parenti dalle assi di quello stesso teatro nei panni del Maestro dei Promessi sposi alla prova. Ed ecco Fabrizio, accolto dall’affetto di un teatro in cui lui è di casa, ma anche dalla trepidazione tesa di un pubblico che non ha dimenticato Testori.
Gifuni introduce il suo “esperimento”, e forse a più di qualcuno fiorisce un sorriso benevolo e indulgente al sentirgli pronunciare, così spontaneamente e così poco lombardamente, Testòri, invece che Testóri: non a me, che, da buona romana, mi sono sentita finalmente legittimata.
Poi è partito. Con un singulto, il verso demente e malinconico di chi ormai è segnato per la vita. È partito così. E poi la corsa del Consonni. L’altra sera, l’abbiamo fatta tutti. Tutti abbiamo letto «Culo chi legge» sul muro sbrecciato; tutti abbiamo masticato il mezzo limone; tutti abbiamo guardato il Dante Pessina, il Dio di Roserio, voltandoci indietro dalla sella della bici. Tutti abbiamo visto il lago salire, dolcissimo e manzoniano, in un improvviso squarcio di armonia. Tutti abbiamo ripreso la corsa a perdifiato dei tendini e dei muscoli della scrittura.
Abbiamo goduto del moto d’orgoglio con cui il gregario, l’eterno gregario, per una volta preme per star davanti. E tutti abbiamo sentito il tonfo del colpo; la caduta; la mano, colpevole, del Dio di Roserio; la sua voce perentoria: «l’è sta un sas. Te l’avevi dì de mulà, troia. L’è stà un sas, Sergio. Un sas». Poi il buio. Sulla scena e su di noi. Il buio riempito da pochi secondi di silenzio: una presa di coscienza incredula. E infine il teatro esploso. Di liberazione. Per dieci lunghissimi minuti di applausi.
Mi è tornato evidente ieri sera che con la loro performance i grandi attori sempre compiono un’operazione critica. Ed uso il termine testorianamente: «la critica non è un “occuparsi di”, ma un lasciarsi “occupare da”». Il «lasciarsi occupare» di Fabrizio è stato totale. E, come sempre quando accade, pieno di conseguenze. Per lui; tutto imperlato di sfiancamento, dopo quell’atto furioso e inaspettato d’amore. Per il pubblico, mai comodo sulla poltrona. Per il testo; su cui si è aggrappata la melodia gifuniana indelebilmente, quasi a ridicolizzare ogni “sì, l’avevo già letto” e a illuminare il testo di nuove prospettive. Per me, in particolare, due.
La prima: il Consonni di Gifuni pare uscito direttamente dalla Branciatrilogia degli anni 80. Il Dio di Roserio, lo ricordiamo, viene pubblicato nel 1954 nei «Gettoni» Einaudi. Eppure Gifuni lo guarda da una prospettiva tra le più suggestive e illuminanti, quella della fine. Infatti, in un testo di trent’anni prima vi legge già i segni, già il magma singhiozzato di Gino Riboldi, di Rino, ai quali affratella il gregario divenuto demente. La seconda: il racconto gifuniano parte con un verso, uno schiocco di saliva strozzata; un verso ritmato, come sa ritmarlo chi lo sente ormai familiare, quasi espressivo di sé. Il Consonni è il primo di una serie di afasici che costellano l’universo testoriano. Sono ultimi, emarginati, scartati; e non hanno parole. Al massimo singhiozzi, versi e balbettii. E Testori si piega su questa assenza e la riempie di parole. Un monumentale atto di carità la scrittura testoriana. Possibile solo a chi sente anzi tutto se stesso come «un’insanabile contraddizione bisognosa solo di Carità».