Anche Armando Cossutta — il cognome dall’ungherese Kossuth — se n’è andato. Lentamente, ma inesorabilmente la generazione politica che è un passo avanti alla mia — un passo lungo 15/20 anni — si sta congedando dalla storia del mondo, dalle passioni, dalle battaglie, dalle piccole vittorie e dalle grandi sconfitte. Cossutta ha condiviso la sconfitta epocale di un disegno di cambiamento del mondo, che si è chiamato comunismo o socialismo realizzato. La teoria del socialismo scientifico di Marx prevedeva che il comunismo come stadio finale della storia umana e il socialismo come lungo periodo intermedio, caratterizzato dalla dittatura del proletariato e dalla socializzazione dei mezzi di produzione, non fossero dei sogni romantici, ma delle necessità storiche, generate dallo stesso sviluppo capitalistico. Le contraddizioni mortali e l’inevitabile collasso del modo di produzione capitalistico avrebbero dischiuso la porta ad un nuovo modo di produzione comunista: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.
Insomma: il ritorno al Paradiso terrestre. La volontà delle classi oppresse, in lotta per la propria liberazione, doveva tener conto di questa dialettica storica, senza la pretesa di scavalcarla o di accelerarla. Il partito era appunto lo strumento con cui il movimento operaio e sindacale costruiva la propria autoconsapevolezza storica, misurava i rapporti di forza tra le classi, scatenava battaglie e se ne ritraeva tatticamente. Il partito era il grande intellettuale collettivo, il moderno Principe, il cervello sociale in grado di squarciare le acque del Mar Rosso e condurre verso la Terra promessa.
Il pensiero di Togliatti e di Enrico Berlinguer ha sistematizzato fino agli anni Ottanta e adattato al movimento operaio e sindacale italiano questa linea di pensiero. A questa linea politico-culturale è rimasto fedele per tutta la vita Armando Cossutta. Fino a dichiarare nel 2008 che votava il partito di Veltroni “da comunista”.
A Milano si era battuto vittoriosamente contro l’ala operaista del partito, rappresentata da Giuseppe Alberganti, di ispirazione secchiana. Pietro Secchia era stato vicesegretario del Pci; responsabile dell’organizzazione del partito; rappresentante di quello che Togliatti aveva definito, non senza una punta di disprezzo, “il partigianume”; contestatore di Togliatti, a partire dalle accuse di Stalin al Pci; teorico e storico della Resistenza tradita. Togliatti lo aveva liquidato nel 1954, prendendo a pretesto la fuga di Giulio Seniga — uomo di Secchia — con la cassa del partito.
Negli anni in cui Cossutta cominciava la sua ascesa politica a Milano, Secchia era appunto segretario regionale del partito in Lombardia. L’accordo con il centrista togliattiano Berlinguer, di un comunista con un comunista, gli venne facile, sia contro l’ala destra amendoliana, di cui Napolitano e Chiaromonte erano esponenti, sia contro l’ala sinistra di Pietro Ingrao, morto il 27 settembre di quest’anno. Finché Enrico Berlinguer non toccò, timidamente, le relazioni con Mosca, che peraltro, come scrive Gianni Cervetti, durarono fino al 1989.
Fu il 15 dicembre del 1981, in occasione del colpo di stato di Jaruzelski in Polonia, che Berlinguer parlò di “esaurimento della spinta propulsiva” del comunismo sovietico. E fu allora che Cossutta controreplicò con l’accusa di “strappo”. Divenne l’uomo di Mosca, per pochi anni. Tentò, dopo la fine del Pci, di replicare il Pci con Rifondazione comunista nel 1991. Quando Bertinotti votò contro il governo Prodi nel 1998, Cossutta, che non aveva mai amato il massimalismo operaista dell’ex-sindacalista, di origine socialista-lombardiana, fondò il Partito dei comunisti italiani. Da cui uscirà nel 2006.
“Ton dròmon tetéleka, tèn pìstin tetéreka“, così San Paolo nella Seconda lettera a Timoteo: “ho finito la corsa, ho conservato la fede”. Solo che la fede di Cossutta aveva perso il suo Dio. Non lo ha mai voluto riconoscere. Farlo avrebbe implicato un cambio totale di paradigma, la presa d’atto che il movimento operaio e sindacale e ogni movimento per la liberazione dall’oppressione per far valere le proprie ragioni doveva rompere con il marxismo e abbracciare una filosofia della libertà. Questo, almeno, aveva raccomandato Carlo Rosselli già dal 1930, con il suo “socialismo liberale”. Cambiare un paradigma che è l’esistenza stessa, un’esistenza tutta politica, non è facile per nessuno. Cossutta ha combattuto e ha perso. La storia umana non conosce redenzioni. Si fa un pezzo di strada insieme ad essa e poi si rotola via. Per il mondo incerto e drammatico della storia presente il marxismo di Armando Cossutta è ormai solo una sbrindellata ragnatela.