Non avendo nè origini nè identità nazionale, la sinistra comunista in Italia ha avuto bisogno di inventarsi un nemico interno, oltre a quello esterno rappresentato tradizionalmente dagli Stati Uniti.
Due mi sembrano i personaggi,di cui si è servita facendo leva sulla politicizzazione della magistratura e sulla estrema contiguità di essa con il Pci. Uno, Luigi Cavallo, torinese, comandante partigiano, giornalista de l’Unità, il primo a schierarsi a fianco di Tito contro Stalin e degli operai di Poznam e Budapest. Proveniva dall’anti-fascismo e dalle fila del comunismo di Torino. Il secondo, Licio Gelli, toscano, veniva dal fascismo degli anni di guerra e dalle grandi improvvise metamorfosi della Liberazione, che lo portarono a collaborare con i servizi degli Stati Uniti e del Pci fino a dare vita ad un’organizzazione dedita ai ricatti e alle intimidazioni.
Cavallo è morto l’8 settembre 2005, cioè ormai 10 anni fa, ma ha speso gran parte della sua vita a difendersi da accuse micidiali. Attentati, organizzazione di colpi di stato, azioni criminali ecc. gli sono stati ampiamente e tenacemente attribuiti.Ma se si consultano gli archivi delle commissioni parlamentari d’inchiesta o dei tribunali ci si rende conto che quasi mai gli è stata data la possibilità di difendersi. Esiste una storiografia miserabile, come quella che si pasce di fantasie su complotti, nella quale non accade mai che venga eseguito il primo atto al quale uno storico e un magistrato sono tenuti: cioè controllare i documenti, verificare le prove.
Ebbene, questo disinteresse per le ragioni stesse del mestiere di storico serve a coprire la vera attività che questi studiosi esercitano, quella di puri strumenti, agenti di legittimazione politica degli interessi del Pci — prima — e di ciò che è sopravvissuto nelle retrovie renziane, poi.
Cavallo ha compiuto azioni terribili. E’ stato, infatti, colui che diede inizio, prima del Pci, alla resistenza partigiana in Piemonte, e fu uno stretto collaboratore (come traduttore e come redattore a Torino del quotidiano l’Unità) di Togliatti e di Molotov nelle assemblee internazionali sul dopoguerra tenute a Parigi.
Ebbe il coraggio di sostenere le ragioni dei comunisti jugoslavi contro Mosca. Fu espulso dal Pci e condusse contro i suoi dirigenti, col materiale da essi spesso fornitogli, un’intensa campagna di stampa anche con giornali murali. Si comportò da rigoroso e impeccabile anticomunista. Verrà accusato, per ritorsione, di essere stato, addirittura, una spia al servizio dei nazisti solo perché aveva studiato il tedesco (come il russo) e si era laureato a Berlino negli anni Trenta.
Licio Gelli non era, come Luigi Cavallo, un uomo di sinistra.Veniva dalla destra, si schierò dalla parte dei franchisti spagnoli, ma durante la guerra civile e successivamente riuscì a collaborare con i comunisti del Cln, in un rapporto di reciproci scambi amicali, salvando partigiani e vite umane.
Successivamente a lungo svolse attività di faccendiere politico, industriale, capo della loggia massonica P2, e di una rete di intrighi e di operazioni ritenute diffusamente anti-istituzionali ed eversive. Malgrado l’ampiezza e la voluminosità dei dossier a suo carico, fu condannato solo per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna del 1980 e nel 1988 per il crack del Banco Ambrosiano e della P2, ma l’esecuzione delle pene fu parziale.
Non è normale, non lo è per le accuse e le imputazioni gravissime di delitti attribuitigli, che il principale organizzatore di un’associazione politico-criminale, con ramificazioni in mezzo mondo, braccato per decenni da magistrati e polizie, si sia spento a casa propria. Di qui la necessità di chiedersi che fondamento abbia la “leggenda nera” — di Licio Gelli, appunto — che da quasi 50 anni avvolge il nostro paese.
Una storiografia spregiudicata, senza interesse per le fonti, insiste a dipingere il nostro paese come l’anello debole di un sistema di stati. Lo sviluppo della democrazia come la crescita economica verrebbe impedita o distorta da cosiddetti “poteri forti” che punterebbero a riportarla indietro, verso una nuova edizione del fascismo o dall’imposizione di una sovranità limitata.
Gli strumenti di questo condizionamento democratico sarebbero stati da un lato l’emarginazione del Pci dall’area di governo e, dall’altra, l’assoggettamento di molti corpi dello Stato (come i servizi e gli apparati militari) a logiche corporative, da cui la corruzione e l’eterogenesi della burocrazia.
Proprio un’associazione di origine massonica come la P2, creata da Gelli, avrebbe avuto il compito di eseguire il programma,ricorrendo anche a interventi golpisti come misure complottarde e a veri e propri sovvertimenti dell’assetto istituzionale. Tali sono considerate riforme come il passaggio dall’attuale regime parlamentare ad un regime apertamente presidenziale, e l’abbandono del sistema elettorale proporzionale. In proposito si può dire che dagli anni Sessanta la nostra democrazia vive nell’incubo e nella paura che le riforme istituzionali necessarie per rafforzare gli scarsissimi poteri decisionali dell’esecutivo corrispondano a tentativi di colpi di Stato.
Tale fantasma lo si è visto incarnato nel tentativo di Segni e della destra democristiana, nel luglio 1964, di fare allertare, dal generale Giovanni De Lorenzo, l’adozione di misure di difesa dell’ordine pubblico (il cosiddetto Piano Solo). In realtà, come chiarì il beneficiario di questo tintinnare di spade, Aldo Moro, si trattava di una misura e di un psicosi volta a piegare le richieste riformatrici dei socialisti di Nenni, cioè di un’operazione negoziale.
Con la strage di Milano del 12 dicembre 1969, quella di piazza della Loggia a Brescia fino a quella del 1980 alla stazione di Bologna, l’idea del golpe entra a farne parte. Anzi prospera, prendendo il nome di strategia della tensione, nella cultura della sinistra parlamentare e soprattutto extra-parlamentare.
Siamo così immersi nel Grande Complotto. L’artefice è sempre Gelli e la P2, e la regia è degli Stati Uniti, di ministri (Restivo, Rumor, il presidente Saragat eccetera), di ufficiali dei servizi segreti, dei carabinieri e dell’esercito. I giudici istruttori per la strage di Bologna, ma anche il magistrato torinese Gian Carlo Castelli avallano, senza remore né l’esigenza di qualche straccio di prova, l’esistenza dal 1960 al 1980 di una strategia politica di natura terroristica: “Da Portella della Ginestra alla strage di Bologna, alle altre stragi eversive, dagli omicidi politico-mafiosi degli anni 70 e 80 a Palermo, fino alle stragi del ’92 e del ’93. Dal terrorismo degli anni 70 e 80 a quella che sembra essere la ripresa terroristica attuale emerge la presenza di un filo comune”, cioè di un doppio Stato, “poteri criminali che cercano di usare il linguaggio della violenza per arrestare la democrazia nel nostro paese” (si veda “Il lungo filo oscuro dei misteri italiani”, intervista di Francesco La Licata a Gian Carlo Caselli, La Stampa, 24 maggio 1999).
Sulla stessa lunghezza d’onda si muovono N. Tranfaglia, G. Galli, G. Zagrebelsky, F. De Felice (con altra misura e finezza) e l’autore di una temeraria (perché priva di ogni documentazione elementare) storia dei servizi segreti, G. De Lutiis; ma si potrebbe continuare.
Il ricorso alla citazione del sempre presente Grande Burattinaio di Pistoia, dato costantemente come ispiratore o organizzatore, si sostituisce al compito di fornire ai lettori elementi fattuali precisi di questo modello esplicativo dei misteri della storia italiana.
Il movente della strage di Bologna non è chiaro. Mancano i mandanti, cioè i colpevoli. E la lista dei beneficiari di tutti questi “anni di piombo” alla fine risulterebbe coincidere con quella dei maggiori leader delle correnti moderate della Dc. In realtà, nella storia dell’Italia repubblicana non è mai esistito nessun Grande Complotto; la volontà di tenere i comunisti fuori dal governo è stata sempre esplicita sia da parte del Dipartimento di Stato, sia di uomini come Aldo Moro.
Ora Gelli è morto. Forse bisognerebbe decidersi a rappresentarlo come faccendiere, con un gusto per tessere intrighi e mettere insieme persone e personaggi diversi. Millantato credito e qualche roboante delirio, sì; ma ordire colpi di stato e fare stragi, direi proprio di no; è un’altra cosa.