Il recente crack bancario che ha interessato quattro istituti di credito ha riproposto il tema della governance bancaria e la riproposizione della domanda delle domande nella storia delle idee politiche: “chi deve governare?”. Dario Antiseri ha dedicato alcune pagine bellissime all’analisi della critica di Karl Popper a questa domanda. La tesi sostenuta dal filosofo viennese, afferma Antiseri, è che con quella domanda Platone avrebbe inquinato l’intera teoria politica dell’Occidente. Tutti sappiamo come Platone rispose a quella domanda, indicando la categoria alla quale egli stesso apparteneva: i filosofi. Dopo Platone, afferma Antiseri, i teorici della politica hanno risposto che avrebbe dovuto governare un re di stirpe divina; un re per grazia di Dio; un re per grazia di Dio e volontà della nazione; un re per volontà della nazione; altri poi hanno sostenuto che dovrebbero governare i più; dovrebbero governare i migliori ovvero il migliore; un principe, un principe armato; dovrebbe governare il popolo; dovrebbero governare i religiosi, gli industriali, i tecnici; fino ad arrivare allo scorso secolo, durante il quale alcuni hanno sostenuto che avrebbe dovuto governare la razza ariana, mentre altri la classe dei proletari. Conclude Antiseri, due risposte, “la prima nazista la seconda comunista, alle quali sono appese milioni e milioni di vittime sacrificate sull’altare di teorie folli e crudeli”.



Sebbene la domanda possa apparire accettabile, secondo Popper, essa è addirittura irrazionale, in quanto ci invita a ricercare ciò che non esiste: ossia qualcuno, qualche ceto, qualche gruppo o razza o classe capace per natura e, dunque, chiamata dal destino ovvero dalla Provvidenza, a comandare sugli altri. Ebbene, afferma Popper, mostrando una straordinaria convergenza con l’idea di autorità sviluppata da Luigi Sturzo dieci anni prima in La società. Sua natura e leggi, è proprio questa sostanza dell’autorità che non esiste in nessun ceto, nessuna classe o razza. Non esiste individuo, gruppo o categoria che sia venuta al mondo con il predicato, o attributo, del dominio sugli altri.



Dicevamo all’inizio che il crack bancario ha riproposto la domanda su chi dovrebbe governare le banche. Alcuni hanno risposto che andrebbe riconosciuto un maggior ruolo alla “società civile”, e come negarlo! Ma la società civile — il livello territoriale — non è forse già rappresentata nei consigli di amministrazione? E poi che cos’è mai questa società civile nella quale tutti si rifugiano? E infine, non rischia di essere l’ennesima risposta ambigua ad una domanda insensata?

Innanzitutto, cerchiamo di capire che cosa significa società civile. Se intendiamo civile in senso aristotelico, allora identifichiamo tale concetto con i confini della “polis” e con l’idea stessa di “polis”: un sistema omogeneo, ed escludente, di valori civili, dove la dimensione politica ha la prevalenza sulle altre. Se da Atene passiamo a Roma, allora civile si identifica con la condizione del “cives” e della relativa “civitas“, ossia con l’appartenenza ad una comunità in forza del diritto. 



Per Tommaso “civile” è un tutto organico che risponde al diritto naturale ed è interpretato in chiave politica. Con la modernità, abbiamo il “civile” mostruoso di Hobbes che, per evitare la guerra di tutti contro tutti, reclama l’intervento di Leviathan; quello di Locke e di Smith che si risolve nel mercato, ma che non può vivere senza lo stato; quello di Hegel che esprime un momento della dialettica che si invera nello “Stato”, e poi abbiamo Marx, per il quale il “civile” è la rappresentazione della pretesa borghese che sarà necessariamente spazzata via della ineluttabile presa di coscienza di classe da parte del proletariato che, per mezzo del partito, porterà a conclusione il corso della storia, instaurando il comunismo. Poi abbiamo il civile per Tocqueville, per Rosmini, per Sturzo e via dicendo. 

Ecco che sorge spontanea la domanda: a quale idea di “civile” si fa riferimento quando si rivendica un maggior coinvolgimento della società civile nella governance bancaria? Ad Aristotele? Allora tutto è politica; a Tommaso? Allora si apre il problema del rapporto con il corporativismo. Escludiamo Hobbes, Hegel e Marx per ovvie ragioni, restano Locke, Smith e Tocqueville, ma a questo punto il “civile” è espresso dall’ordine di mercato e perché mai distinguere “mercato” e “società civile”?

Questa pedante rassegna credo sia necessaria per esprimere la difficoltà di maneggiare un’espressione così polisemica come appunto “civile”.

Un’interessante interpretazione della nozione di “civile” ci viene offerta dall’analisi di Sturzo. Per Sturzo “civile” è l’insieme delle forme sociali primarie e secondarie che interferiscono tra di loro. Le forme primarie per Sturzo sono la famiglia, la religione e la politica e tra le secondarie (non in termini d’importanza, ma perché trasversali alle primarie) indica la comunità internazionale e l’economia. Questo significa che il “civile” non si risolve nel politico, ma resta un’entità plurale, poliarchica e irriducibile a qualsiasi forma sociale che non sia la persona ed è chiamata a svolgere il ruolo di argine critico alle pretese onnivore di chi detiene il potere. 

Secondo la prospettiva sturziana, il “civile” non si oppone al “mercato” e quest’ultimo non si oppone al “politico” (stato). “Civile” indica la galassia nella quale troviamo il mercato e lo stato, ciascuno con le proprie funzioni. La prospettiva teorica, in ambito economico, che tenta di incarnare questa idea sturziana di “civile” è l’economia sociale di mercato, la quale si fonda su tre principi: 1. La dimensione poliarchica della società civile e del conseguente bene comune (irriducibili alla dimensione politica); 2. Il principio di sussidiarietà come principio d’ordine (orizzontale e verticale); 3. Il rifiuto della discrezionalità politica nell’organizzazione del mercato (costituzione economica).

Ciascuno dei tre suddetti principi esalta la dimensione “civile”. Questa è la prospettiva sturziana, profondamente debitrice della riflessione vichiana e rosminiana, che la teoria ordoliberale e dell’economia sociale di mercato hanno avuto il merito di preservare e di aggiornare. 

Si tratta di una tradizione italiana, cristiana, europea, che dir si voglia, che ha saputo opporsi all’abominio del totalitarismo nazifascista e comunista, mentre buona parte dei cattolici italiani (non certo Sturzo ed Einaudi) si attardava nell’impossibile riesumazione del corporativismo, proprio in nome di quel “civile” che si risolve nel “politico” e che finisce per essere omogeneizzato dal soggetto che, per definizione, avanza la pretesa di “vertice sintetico”: lo “Stato”.

Per tornare al punto di partenza e tentare una sommaria conclusione, se maggior coinvolgimento della società civile nella governance bancaria significa semplicemente “aggiungere un posto a tavola” nei consigli di amministrazione, allora saremmo sempre nella logica neo-corporativa di chi interpreta il “civile” come una forma di pluralismo istituzionale, gerarchizzato dallo “Stato”.

Allora, per concludere, con Popper, Antiseri e Sturzo, credo che razionale non sia chiedersi “Chi debba comandare?”, quanto piuttosto rispondere a quest’altro interrogativo popperiano: “come ci è possibile controllare chi comanda? […] come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?”. 

Sembrerebbe proprio questa la domanda più significativa in una società aperta, popolata da persone fallibili, ma perfettibili, e desiderose di promuovere le condizioni istituzionali del bene comune. Nel contempo, con tristezza, guardando il grado di colpevole disinteresse o distrazione di certi organi di controllo, con riferimento al caso in questione, ci tocca constatare che sembrerebbe sia stata proprio questa la domanda maggiormente negletta da quella società civile che troppo spesso retoricamente si esalta e che sovente si accontenta di un “posto a tavola”, piuttosto che rappresentare il limite invalicabile e l’argine critico nei confronti di chi detiene il potere.