C’è una donna bambina con un velo, che tiene un piccolo stretto al viso, sotto un telo luccicante d’oro e argento. Sullo sfondo, un giovane uomo col capo chino, coperto da un cappuccio nero. E’ una foto che ha l’intensità di un’icona contemporanea, e potrebbe essere una natività del nostro tempo, se non fosse per i visi immersi di malinconia. E’ stata scattata dal fotografo greco Aris Messinis, dell’agenzia Afp, che si è trovato negli ultimi due mesi in mezzo ai rifugiati, per lo più siriani, che su mezzi precari raggiungono l’isola greca di Lesbos, per provare il passaggio al mondo nuovo, quello che almeno li toglie dall’incertezza delle bombe. Altre, altrettanto forti, le scatta per Reuters Yannis Behrakis. Ce n’è una, in particolare, con un neonato avvolto in fasce, in uno scatolone di cartone avana. Il bimbo si rannicchia nella sua piccola mangiatoia di carta, solo, a dormire.
E’ Natale, e con lui preme tutto questo pulsare di vite ai confini, mettendo tutti, chi ci crede e anche chi non ci crede, davanti ad un fatto perentorio: nascere è una cosa seria. Nella parola Natale si nasconde la parola nascita, ho scoperto di nuovo, davanti a una piccola e resistente bambina turca che me lo chiedeva. E, come ha recentemente ribadito uno dei poeti più importanti e sommessi d’Italia, Emilio Rentocchini, in realtà il vero mistero nella vita non è morire, ma nascere. L’aveva capito così bene, Antoni Gaudì, che alla sua morte aveva lasciato, piantata nel cuore di Barcellona, una sola porta trionfale, della sua Sagrada Familia: il portale della Natività. Sapendo che la sua vita sarebbe durata meno della sua opera, decise. Alzò verso il cielo tutta una facciata, in cui raccontava l’intera storia del Natale, in pietra dura.
Che cosa c’è di più fragile, invece, e al contempo di più perentorio, di un bambino? È una potenza che diventa già un atto. Un germe di atto, che nasce da un’azione precedente, della carne e della mente. Nel tempo dell’oggi istantaneo, del tutto e del subito, sembra quasi una bestemmia. Sembra una bestemmia, immergendosi nel flusso di gente che sceglie i regali, in fretta, con più o meno amore, come fossero quelli che salvano dal vuoto. Sono belli i regali di Natale, ma spesso di una gioia che copre i sapori, che copre il tempo. Vivienne Westwood, geniale stilista britannica, dice al popolo di Facebook, con la sua faccia vivace: “Scegliete meglio. Fate durare le cose”. Già, ma come farle durare, dove tutto sembra che crolli? Guardare al centro del nostro mondo stanco non fa che aumentare la stanchezza. Addomestichiamo il Natale a colpi di buoni propositi, e non ci accorgiamo della mangiatoia nascosta nella città, dove tutto ciò che accade di cruciale, accade nelle periferie.
L’inviato della Stampa Domenico Quirico, tornato dopo due anni nei luoghi terribili della sua prigionia siriana, così condensa alcune impressioni: “Sento l’eco di ciò che ho provato anche io: essere immobile ad aspettare un annuncio di liberazione, del cibo, qualcosa, qualcuno. Aspettare, vedere; destino. Questa società conserva dentro di sé quel momento iniziale che si rinnova e ricomincia ogni giorno, il suo seme anche quando è diventato una complicatissima pianta. Fissare quel seme per non perdersi”. Vale per la Siria, vale per il nostro mondo, alle cui rive arrivano esuli e bombe. Fissare un seme. E’ quello che fa Maria nella Cappella degli Scrovegni, guardando fisso negli occhi quel bambino che è in fasce, ma anche in un sudario, lei che è vestita di un manto dello stesso colore del cielo che la sovrasta, ad indicare che il cielo è sceso in lei e, in quel bambino, si è impastato di terra. Per non perdersi, fissa quel seme che è suo figlio. Chissà se si è mai sentita, poi, scappando in Egitto, come quella giovane donna sotto la coperta isotermica dorata. Chissà se aveva nel cuore il peso dei santi Innocenti, di tutti quelli che ha accolto il mare, o che il destino ha preso, a Sandy Hook come a Beslan, o nell’oceano immenso della nostra distrazione. Certo è che aveva tra le braccia una piccola cosa fragile, un bambino, il suddito più lontano di un imperatore che aveva in pugno il mondo, e che tutta la promessa che le era stata raccontata fin da piccola era lì, tra le sue braccia, in mezzo al niente.
“Forse, in Natali ingordi e privi di perdono, in Natali, alla fin fine, disperati, come quelli che stiamo vivendo, la prima cosa da fare è lasciar che riaffiori la nostalgia che (…) giace ancora sepolta in noi”, scriveva Giovanni Testori, la Vigilia di Natale del 1983, sul Corriere della Sera.
Prima del Natale c’è la nostalgia per la luce che deve venire, e che tutti aspettano, qualunque nome le diano. Come duemila anni fa, forse, dove la Storia faceva i suoi grandi conti, e da un bambino appoggiato in una scatola di cartone nacque il racconto dei racconti, che costrinse l’umanità a cambiare il metro al tempo. Pasolini, che amava la carne della vita in profondità, senz’altro pudore che quello dell’abisso, immerso in quella nostalgia scriveva a Maria Callas “al posto dell’Altro/ per me c’è un vuoto nel cosmo/ un vuoto nel cosmo /e da là tu canti”. Che sia un bambino l’antidoto al vuoto, questo è il vero scandalo del Natale.