Cosa accade nel mondo dell’arte sotto gli influssi della crisi e come creano i principali protagonisti, gli artisti, in questo tempo? Seguono un’altra rotta e corrono incontro alla vita. Come Letizia Fornasieri che qui si racconta a mostra appena conclusa — un’esposizione di grandi proporzioni al Museo Diocesano di Milano con 60 nuove opere. Arte Fiera Bologna 2016 l’ha subito chiamata per la sezione Solo Show.



La mostra, inaugurata lo scorso ottobre 2015, è stata molto apprezzata dal pubblico e dalla critica. C’era molta attesa e anche voci di qualcosa di nuovo nelle tue opere. C’era anche il timore, in qualcuno, di non ritrovare più la consuetudine della pittura di Letizia Fornasieri, certi soggetti. Avevi questo pensiero o invece no? Perché?



Io non direi… Intraprendere questo nuovo percorso, che si è caratterizzato senza averlo preordinato, è una dimensione riferibile a questi ultimi due anni con delle situazioni che si sono assestate in un dato modo, per cui io ho seguito… 

La vita?

Sì, la vita, quello che succedeva. Ecco, io non ho mai avuto timore che questa opera, questo nuovo modo di dipingere potesse suggerire una stranezza, un allontanamento dal mio modo di dipingere anteriore. L’unico timore era un po’ quello del mio gallerista che, invece, siccome deve vendere e vive sui collezionisti, aveva il timore che il pubblico non mi riconoscesse, non seguisse questa nuova linea. Ma io non avevo nessun timore, perché quello che ho sempre fatto è stato quello di obbedire alle esigenze che la pittura mi suggeriva e mi chiedeva. Questa mostra nasce da due elementi, due situazioni capitatemi: una di queste era l’esigenza di arrivare a una pittura un po’ diversa. Da qualche anno avevo l’esigenza di una pittura che fosse più veloce, che il gesto lo fosse, che il colore scivolasse di più sulla superficie e l’immagine stessa risultasse come più abbozzata. La pittura doveva, secondo me, arrivare a “cantare” un attimo prima della sua funzione che, nel mio caso, è stata sempre quella di dettagliare le cose come un amore alla realtà. Qui “un attimo prima” non ha voluto dire che l’interesse primo non fosse quello della figura del reale, ma è per questo motivo ci sono anche delle differenze notevoli. L’altra diversità è nell’uso della fotografia, che finora mi è sempre servita solo per fissare un idea.



Dunque che differenza si documenta? Anche nel metodo di lavoro. 

C’è come una prevalenza della memoria, del sentimento, del pensiero, rispetto al bisogno di vedere la cosa dal vero. Il processo dell’opera avviene in un altro modo: io ho sì l’idea di fare una cascina, un campo di ulivi, un vigneto, ma non metto lì una fotografia e la rivivo, bensì metto lì una decina di foto inerenti a questo tema, le tengo lì con la coda dell’occhio vicino al tavolo, poi inizio a buttar su dei colori su questo nuovo materiale che ho sperimentato e questi colori scivolano su di esso in un modo diverso che sulla tela o sulla tavola di legno, per cui assumono un po’ autonomamente delle forme che solo poi, con la spatola o col pennello, con lo straccio, si dirigono fino a costruire pian piano la forma che avevo in mente di fare. È un modo molto diverso di lavorare.

Questa forma che tu sapevi di poter fare, l’hai vista prima nella tua percezione? 

Questa forma che io voglio andare ad incontrare e poi rendere visibile a me e all’occhio degli altri è qualcosa che io ho visto, sicuramente. Direi che il mio lavoro non è stato mai concettuale, semmai astratto, anche se questa pittura può sembrare un poco più astrattista, perché dettaglia in modo meno naturalistico le cose. Ma io non voglio perdere la relazione col soggetto, per cui si capisce che c’è un vigneto, si capisce che ci sono degli ulivi, che ci sono dei campi. Anzi sono andata a trovare, a scovare degli strumenti che mi permettessero una resa ancora più realistica, contraddicendomi un po’ rispetto a quanto dicevo prima. Per esempio l’aratura dei campi è resa con il pettine, quindi passando il pettine sulla zona di colore. Ho cercato sì di dettagliare, ma in modo meno naturalistico, di cogliere degli aspetti invece peculiari di una cosa: di una pianta, di un terreno. Io questa dimensione non la voglio perdere.

 

Questo “cantare prima” della pittura, che cos’è? Che nome gli dai?

Provo a raccontare. Una ventina d’anni fa mi rimase impresso un testo di don Giussani in cui egli, parlando della resurrezione di Cristo, diceva che dopo di essa il Suo corpo non era più legato né al tempo né allo spazio. Mi vennero subito in mente i pastelli di Congdon, che hanno come una loro autonomia e quindi non sono più riferiti a qualcosa di naturalistico, di visivo, che uno ha visto. Ho come fatto un’analogia tra l’affermazione di Giussani e le opere che avevo visto. Rispetto a come io lavoravo, mi sembravano molto strani questi pastelli, molto lontani da me; ma non potei fare finta di non aver sentito ciò che disse don Giussani. La sua affermazione rimase in me, e forse in quest’ultimo periodo è riemersa più che in passato. Ecco, è giunta la possibilità di accettare un’opera che non ha nessun riferimento naturalistico e tuttavia capita in un luogo o in un altro, proprio come avveniva per il corpo di Cristo dopo la resurrezione, che passava attraverso le porte, dicono i vangeli, e si manifestava senza il limite della nostra esperienza umana. Che la pittura “canti” vuol dire che forse ha un attimo di autonomia sua, prima di andare a dettagliare le cose. La funzione con cui io ho usato la pittura è stata prevalentemente questa, anche se nel mio percorso pittorico le immagini sono molto distorte e molto costruite (molti hanno parlato di “espressionismo pittorico”), non sicuramente però di un realismo fotografico. Però questo fatto dell’autonomia da un paio d’anni mi suggerisce che forse c’è, e non saprei dirlo diversamente, un “abbraccio” un attimo prima alla cosa, che non dipende direttamente da essa.

 

Queste nuove opere sono un’esplosione di colori, sensati e in rapporto tra loro. “Sensati” nel senso di belli-nelle-loro-relazioni. L’hanno notato in tanti. Hai detto spesso che che è il colore che genera la forma. Che cosa c’è di nuovo in queste opere e cosa di antico nella tua posizione?

Direi invece che nella mia pittura ho sempre affermato che il colore viene dopo la forma. C’è un prevalere della forma nella realtà. Per esempio se uno vede un catino rosso o blu, e si immagina di entrare in bagno o in cucina di notte, quando tocca quel catino lo pensa rosso, anche se lì non si vede. Inoltre, io negli anni ho fatto l’osservazione che non esiste un colore se non appartenente ad una forma, nella nostra esperienza anche il cielo appartiene ad una certa fisicità delle nuvole, dell’aria. Ma non esiste questo colore bordeaux se non è qui, in questo passamaneria della borsa. Nella pittura di oggi c’è di nuovo, forse, la libertà di vestire di nuovo le cose, con degli aspetti che non sono propriamente naturalistici. Inserire dei violetti, dei verdi, degli azzurri, nei campi, nella terra, oppure nelle vigne. C’è come una libertà maggiore, forse.

 

Queste opere fanno apparire una realtà previa, che si vede prima, come hai detto tu. Sei d’accordo su questo?

Non lo so, ditelo voi. Chi guarda i miei quadri dice cose che io non ho pensato o che magari non riscontro, no? Perché il quadro apre delle risonanze che sono proprie dell’osservatore, che vanno a pescare nell’unicum, nella vita di ciascuno, che non sono mie. Io non so se c’è qualcosa. Sicuramente la realtà ha un segreto. Io dico che ha una Ragione, con la r maiuscola, e il mio intento nella pittura, e nella vita, è sempre stato quello di assediare la realtà per costringerla a sputare la sua ragione. Ecco, io non direi che c’è una cosa oltre, sopra o di lato. C’è una cosa dentro. Mi viene sempre in mente un’altra affermazione di Giussani quando diceva che segno e mistero coincidono. Dobbiamo ricordarlo. E’ vero che il mistero coincide con il segno, ma il segno non esaurisce il mistero. Però se non è nella lattina che ho davanti, nella situazione che vivo, nei fatti di Parigi, nel mio coniglio di casa che mi viene lì quando gli do da mangiare, dov’è questo Segreto, questa Ragione? Il pensiero non è solo nel pensiero, perché io faccio l’esperienza che il pensiero non riesce a sistemare la vita. 

 

Una frase di san Gregorio di Nissa dice pressappoco che “I concetti creano gli idoli, solo lo stupore invece conosce”. Si tratta di questo?

Don Giussani diceva che la logica della ragione è una profonda simpatia, ed è anche la logica della conoscenza. “Per conoscere bisogna provare una grande simpatia, una profonda simpatia per qualcosa o qualcuno. Il passo successivo alla conoscenza è la moralità, perché se uno conosce una cosa vera è tutto teso ad andarle dietro”. Come accadde per i due discepoli rispetto a Gesù. “La logica della moralità è osservarlo”, spiega Giussani, e mi ha colpito moltissimo, perché vuol dire che uno è morale, non se fa le cose bene o giuste, ma se osserva qualcuno. Ci vuole nella realtà qualcosa di così interessante da guardare e seguire. Io ritengo che in questo mio nuovo lavoro ci sia questo di antico, che c’è sempre stato in me, cioè di guardare quello che c’è. Ciò è profondamente diverso dall’atteggiamento conoscitivo dei nostri secoli e decenni, in cui si dice che la conoscenza deriva dal pensiero. E quando tu dici che l’arte contemporanea, spesso ma non sempre, può ridursi all’illustrazione di un’idea è verissimo. Magari è anche un’idea giusta, ma la grande differenza è che non c’è lo stupore, non c’è lo stupore di fronte a qualcosa di nuovo. 

 

Com’è stato possibile fare così tante opere in un anno e molte di alto livello, tanto che sono state quasi tutte vendute? Che segreto c’è, se c’è? Potremmo anche dire: “come si rinnova la persona nel suo desiderio di dire qualcosa al mondo”?

Questa è una domanda che mi consente di esplicitare le due motivazioni per cui è nata questa mostra. La prima è che la persona, l’io, si rinnova e l’esito si vede innamorandosi di qualcuno o di qualcosa che accade e non di qualcosa di cui uno mette in atto una strategia, un percorso pensato. Ed è accaduto che io mi innamorassi di questi amici, di questo Valerio, che mi hanno invitato nella campagna senese. Questa mostra nasce da quest’amicizia con queste persone che mi hanno introdotto a un mondo a me sconosciuto. Io non sapevo che cosa fosse una vigna, un vigneto, come si facesse il vino, come fossero le ginestre, non sapevo che gli ulivi non si tagliano quando piove, che non si va in campagna ad arare quando piove. 

Volendo bene a quelle persone mi sono introdotta a un mondo a me sconosciuto. Questo però non basta. Occorre che uno abbia una domanda, ci vuole qualcosa che tu stai già cercando. Questo “qualcosa” che stavo già cercando, negli anni si è specificato e questa domanda ha assunto la connotazione della ricerca di questa pittura più veloce e un po’ più ancora astratta. Poi fare tante opere ha dipeso in parte anche dalla superficie che ho trovato, che consente una velocità maggiore del lavoro. 

 

Questo cielo ad orizzonte alto, quindi questa realtà, questa distesa che invade l’opera fa venire in mente Congdon, come nota nel suo testo Paolo Biscottini, direttore del Museo Diocesano. Tu hai avuto un profondo rapporto artistico con Congdon, hai degli scritti suoi che speriamo un giorno vengano pubblicati; c’è anche una poetica e un sentire comune rispetto al tema della realtà. Comunanza e differenze, che lui, mi pare, stimava moltissimo, proprio perché designavano il tuo stile caratteristico, la tua cifra. Cosa c’è di simile nello sguardo e che cosa di diverso?

Io ho conosciuto Congdon alla fine anni Ottanta e ogni tanto andavo a trovarlo. Parlavamo, poi mi scriveva dei suoi pensieri, delle lettere, ha tenuto in casa sua anche un mio quadro. Del suo lavoro mi piaceva moltissimo il fatto che graffiasse la superficie, che segnasse ed incidesse in modo molto deciso e profondo la superficie del colore. Questa cosa non la rilevavo nelle opere dei coetanei o in altri pittori, mi piaceva. Infatti ho cominciato a disegnare, a fare dei pastelli a olio, che è un materiale grasso sulla carta e a inciderlo. Ho cominciato così. Il Premio San Fedele che ho vinto anni fa era proprio un paesaggio, un accenno di un paesaggio di neve segnato. Ricordo “Winter” di Congdon che mi piaceva molto, un bosco d’inverno. Questo modo di segnare la superficie è una somiglianza che è venuta fuori in questo lavoro. Un’altra comunanza che riesco a rilevare, riscontrabile nella mia pittura e in parte in questa, è questo sole che appare nei quadri di Congdon e che è sempre abbastanza presente nei paesaggi di New York. Io ho pensato come analogia ai miei segnali del tram, quelli rossi in alto nel paesaggio urbano, oppure mi è capitato di mettere un sole rosso. Ecco, in questo c’è una vicinanza. Infine, un altro punto in comune mi sembra la rappresentazione molto alta dell’orizzonte. Io sono lombarda, quindi ho sempre visto i paesaggi nostri della Lombardia con questo orizzonte piatto oppure quando andavo in vacanza vedevo il mare con l’orizzonte piatto. E a me dà molto fastidio la banalità di questa linea, per cui tendo sempre a spezzarla. Non mi piace. Allora per fare un paesaggio vedo un po’ dall’alto questo orizzonte. In certe opere l’ho messo molto in alto e c’è solo una strisciolina di cielo, altre volte non c’è neppure. E’ un tipo di composizione dell’immagine che non è assolutamente nuova, ma c’è nella pittura simbolica. Mi viene in mente la pittura romanica, in cui non esistono elementi di naturalismo, di profondità.

 

Di simmetrie… 

Ecco di simmetrie, ma anche di libertà rispetto a quanto si vede. Ricordo che ho cominciato guardando la pittura romanica e le sculture romaniche. Anche il formato quadrato che sto usando insieme a questo orizzonte molto alto consente di costruire il paesaggio secondo una ragione che esula dalla fisicità delle cose, perché è costruito. Torniamo un po’ alle cose medievali. L’illusionismo non basta.

 

C’è la creatività.

Sì. Ma anche questa piattezza del paesaggio è come ritornare un po’ alle connotazioni con cui i medievali si esprimevano senza prospettiva: un pre-Rinascimento in cui la ragione dell’immagine non era il naturalismo, l’illusionismo; la ragione della costruzione dell’immagine era che tutto funzionasse secondo un pensiero religioso, secondo una ragione che era oltre. L’altra cosa che mi connota, secondo me, avvicinandomi a Congdon, è la sofferenza.

 

Cosa vuol dire questa sofferenza? È solo un fatto biografico o è anche dentro l’opera?

Io non so se c’è nell’opera. Devo dire che tante persone mi hanno detto che in quest’ultimo periodo, in questa mostra, si vede una gioiosità e una leggerezza maggiore, una luminosità maggiore. Effettivamente rispetto alla mia opera precedente si vede tanto questa differenza, non so a che cosa sia dovuto. Tuttavia io dico sempre che sono una persona drammatica quando spiego i miei quadri precedenti.

 

Ci sono dei progetti nuovi?

Ci sono dei progetti in cantiere, che potrebbero venire ma potrebbero anche non venire: uno stuolo di filovie, di tram, per chi aspetta i miei tram, e forse il mare. Ma in un modo un po’ strano. Sarete magari sorpresi… se verrà.

 

(Cristina Griner)