Lo scontro tra Roma e Bruxelles circa l’ipotesi di “aiuti di Stato” (decreto-legge n.183 del 22 novembre scorso, cosiddetto salva-banche) mette in luce come nella nostra attualità la tecnocrazia, o meglio la “tecnica finanziaria”, abbia piegato a sé la politica. E’ solo la punta di un iceberg, che da novembre 2011 ad oggi mostra che ciò che poteva sembrare una supplenza, il governo tecnico, è in realtà diventato una “sostituzione” della politica. E in primo piano, e non sullo sfondo, ci sono i risparmiatori — derubati — delle quattro banche salvate.



Politica, tecnica, finanza. In questo plesso concettuale si inscrive perfettamente lo strale acuminato del costituzionalista, professore emerito, Gustavo Zagrebelsky, nel suo recente volume Moscacieca (Laterza 2015). La sua tesi di fondo è che il mondo attuale, che la globalizzazione ha reso uno, “si stia disgregando in molte contraddizioni non più tenute sotto controllo da un qualunque ordine d’insieme”, una “scorribanda” di poteri economico-finanziari e tecnologici mossi da una illimitata e cieca volontà di potenza. Nell’economia “finanziarizzata” e globalizzata i governanti si riducono a sua volta a meri “tecnici della sopravvivenza, ai quali manca la capacità di sollevare lo sguardo dall’immediato presente e gettarlo un poco più in là dalle continue emergenze che li assillano” (Prologo). 



Vivere, allora, sembra oggi solo sopravvivere (senza un fine progettuale) all’onda d’urto di una globalizzazione anarchica che ha allargato al massimo la sfera dell’irrazionalità, creando sradicamenti e precarietà nella vita degli esseri umani, rovesciando il detto hegeliano: ciò che è reale, è irrazionale (ivi, p. 110). Se questo è il mondo attuale, se “così va il mondo”, che nel linguaggio giuridico è definito come “forza normativa del fatto”, la sopravvivenza diventa l'”accettazione rassegnata dell’onda come necessità”, che sopprime la libertà e vanifica la responsabilità. E, di conseguenza, vengono meno la politica, come possibilità di scelta, e la democrazia (cfr. ivi, p. 105). In mancanza di un progetto di vita, di un filo rosso capace di dare un senso alle mere verità di fatto, la conquista della storia individuale e poi collettiva cade sotto i colpi di una cieca necessità. 



E’ la “dittatura del presente”, il titolo di un altro volume di Zagrebelsky del 2014. Solo lo status quo è legittimo. Perché la tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. “Può essere riparatrice o, eventualmente, amplificatrice dell’esistente, ma non modificatrice o trasformatrice” (Moscacieca, p.13), come l’intervento di un tecnico su un manufatto, il cui compito è ripararlo, potenziarne le possibilità, non cambiarlo. Preservare dunque lo status quo. E’ questo il tempo attuale, esecutivo, tecnico, impolitico, nichilista, che garantisce ciò che c’è rispetto a ciò che potrebbe esserci (ivi, pp.11 e segg.), in cui le riforme, che in realtà non sono altro che “adeguamenti tecnici” (ivi, p. 17) non servono per trasformare, ma per consolidare.

E’ interessante come Zagrebelsky si richiami, rispetto a questa neutralizzazione e “spoliticizzazione” della politica ad opera della tecnica e (nei nostri giorni) della finanza, al Carl Schmitt del 1929 (Das Zeilalter der Neutralisierungen und Entpolitisierung) che vedeva nella Russia comunista l’esempio più perfetto della tecnocrazia e della morte della democrazia, salvo poi che la reazione a quel materialismo avrebbe portato intellettuali come lo stesso Schmitt ad aderire a regimi altrettanto totalitari (ivi, pp. 106-107). Se il presente di Schmitt faceva intravedere che le vecchie diatribe, destra-sinistra, conservazione-rivoluzione, si sarebbero dissolte al sole delle tecnica e che i governanti si sarebbero ridotti a semplici “élites del tutto occasionali, fluttuanti” (ibidem), oggi quella profezia, diversamente dalla società consumistica di beni “reali” che ha trovato la sua piena realizzazione negli ultimi anni del Novecento, mostra che il segno del nostro tempo — dice Zagrebelsky — è invece finanza che produce finanza, denaro che produce denaro (ivi, p. 108).

Scrive il noto costituzionalista: “Ci furono tempi in cui ci si combatteva in nome dei propri dèi, dei propri principi, delle ideologie, delle utopie, della gloria e della potenza delle case regnanti o delle Nazioni o degli Stati, e per sostenere queste azioni occorreva denaro, molto denaro. Altri tempi. Oggi, ci si combatte per il denaro. Le guerre sono diventate guerre o ‘tempeste’ finanziarie che hanno anch’esse i loro generali (i finanzieri), le loro truppe (i “promotori finanziari”), le loro organizzazioni (gli istituti bancari), le loro vittime (i risparmiatori, i lavoratori che le operazioni speculative privano del lavoro). E hanno la loro arma: il denaro, arma e scopo” (ivi, p. 24). 

Il fine coincide con il mezzo, è una patologia, è autoreferenzialità, raffigurata dalla figura mitologica dell’uroboro, il serpente che, per nutrirsi, morde e mangia la propria coda. E’ il ciclo denaro-potere-denaro che, come il serpente, non conosce sazietà, ma cresce crescendo (cfr. ivi, p. 28). Il Pericle di Tucidide, nell’epitaffio per i morti del primo anno della guerra del Peloponneso, rivelava una verità attuale: se il potere non si dà un fine che lo trascende, se le sue leggi non si identificano con il bene comune, non ci sono né politica, né democrazia (ivi, p. 21).

Se così stanno le cose, la sovranità va allora in mano ai creditori. Lo Stato, quel “dio in terra”, è pur sempre come in Hobbes un “dio mortale”. Lo Stato attuale non è più, agli occhi di Zagrebelsky, Stato sovrano, se la tecnica finanziaria ha sostituito la politica. Non è più ente necessario, se il linguaggio della sovranità ha ceduto il passo a quello del commercio (governance è un termine aziendalistico, non politico). Se questo è vero, la possibilità del fallimento dello Stato, che chinando la testa alla finanza è sempre meno depositario di decisioni politiche, è un concetto sconvolgente che ribalta “tutte le categorie del diritto pubblico che si sono formate intorno all’idea di sovranità”. “Le ragioni della sua morte un tempo erano tutte di diritto pubblico, interno o internazionale: demoni interni, cioè lotte intestine, o dèi esterni, cioè sconfitte in guerra”. Oggi quelle ragioni sono di diritto commerciale, cioè di diritto privato (ivi, p. 37). 

Dunque finanza contro democrazia. Di fronte ai colpi della necessità finanziaria la base parlamentare del governo viene meno e il governo stesso diventa tecnico-esecutivo, degli obblighi imposti dalla finanza. “I ‘tecnici’ si trovano negli ‘esecutivi’ che si appoggiano sugli ‘advisory’ e sugli ‘executive boards’, dietro i quali, a loro volta, ci sono centri-studi, commissioni, comitati di ‘analisti'[…]”; e ancora tavole rotonde, conferenze, lectiones magistrales, interviste, “convegni per lo più promossi per dar prova di esistere” (ivi, p. 14). “‘Executive’ è sinonimo di successo. Sui treni ad alta velocità, la ‘classe’ superiore è la ‘executive’, affiancata dalla contigua ‘business’ (a nessuno è venuta in mente la ‘legislative’ o la judiciary'” (ibidem).

Che fare, si chiede Zagrebelsky, di fronte a tutto questo? Di fronte al capitalismo finanziario interpretato sempre più come una religione, come già Walter Benjamin ne Kapitalismus als Religion del 1921 aveva intuito, di fronte alla finanza ruggente ci possono essere solo “eretici”. Il capitalismo finanziario “ha i suoi templi (Wall Street o Piazza Affari), dove gli adepti, perfino i capi di governo, si recano per ‘fidelizzarsi’ e ricevere la consacrazione; […] propagandisti e missionari (i brokers), le sue Inquisizioni (le agenzie di rating), promesse di vita futura indefinita, se non proprio eterna. In breve, anche se ateo e nichilista, può essere assimilato a una religione, con la sua ortodossia di cui la moneta è il simbolo. Ha le sue liturgie, celebrate in occasioni rituali, meeting, conferenze, forum cui partecipa un pubblico selezionato di persone di sicura fede o da conquistare alla fede” (ivi, p. 111).

Che fare dunque? Più che dividersi in ottimisti e pessimisti, per Zagrebelsky è più utile distinguere gli sciocchi dai non sciocchi. “Gli sciocchi, nel campo della politica, sono coloro che tanto affanno si danno per conquistare un ormai evanescente potere, e in tanto affanno consumano le proprie forze. Sembra che l’assurgere ai posti di governo sia per loro l’appagamento di un’ambizione che riempiono di allegra spensieratezza e di retorica felicità fatta di niente. Ancora più disperante è che questa leggera, fatua e insulsa allegrezza, che fluttua di qua e di là per tentare di durare ancora sempre un giorno in più in attesa della catastrofe, senza alcun serio, costante, coerente e maturo impegno per un’opera degna della parola politica, incontri il consenso di quanti si fanno sedurre da uno spettacolo i cui attori sono tanto prodighi di rassicurazioni quanto vuoti di convinzioni” (ivi, p. 113).