Da ottocento anni abita a Bologna una donna straordinaria, che la città conserva gelosamente. E’ la “Madonna dei Servi” di Cimabue, oggi ospite alla Raccolta d’Arte Lercaro di Bologna, perché bisognosa di cure, prodigatele dalle mani capaci di un’équipe di restauratori coordinata da Camillo Tarozzi. Con felice intuizione, la Lercaro ha deciso di aprire al pubblico, gratuitamente, il restauro in atto.
C’imbarchiamo così, un po’ in sordina, in quest’avventura quando già la sera allunga le mani sul pomeriggio d’autunno. Dal traffico ci immergiamo nel silenzio. A guidarci è proprio il suo restauratore, che, come un fiume in piena, comincia a offrirci tutto quello che sa di lei, come si sa di una persona di casa. L’ora che abbiamo non basterà. Comincia sgridandoci bonariamente per la nostra distanza (ci eravamo diligentemente accomodati sulle sedie), e ci invita a sederci per terra, su antichi tappeti, ai piedi di lei, quasi ad entrare nel tempo che lei ci detta. Non è la prima volta che mi trovo davanti a un grande restauratore; succede sempre che ti costringono a spezzare quella barriera invisibile tra te e l’altro che è la reverenza per l’opera, a ricordarti che le tue mani, in fin dei conti, sono, benché molto meno abili, pari a quelle di chi le ha dipinte.
Un’ora passa come un soffio, davanti a tanta ricchezza. Siamo invitati a spalancare gli occhi, a interrogare il dipinto e le sue molte lacune. La perdita forse più grave che notiamo subito è quella di un prezioso panno di damasco, in origine verde, di cui restano solo le bordure con frange e scritte in arabo, segno del sangue costantinopolitano e cosmopolita che scorre nelle vene di questa Madonna in trono. Si capisce che il gioco della tela doveva essere un fraseggio di avanti e indietro, dentro e fuori, attorno al maestoso cuscino rosso che le sostiene i fianchi. D’altra parte, Cimabue ha lavorato scoprendo l’esistenza dei piani. E’ stato il primo che, in Occidente, ha trovato le trasparenze nei tessuti, e che ha provato l’impensabile, lavorando con tecniche d’avanguardia, causando così la perdita parziale della propria opera, come ad Assisi. Ha preso il rischio di lavorare con tecniche innovative, perché voleva, prima di Giotto, dare l’idea dell’imitazione della realtà in forma prospettica, in rottura con quell’Oriente alla cui fonte ha pure bevuto avidamente. Per questo ha “sbagliato” gli affreschi di Assisi, rischiando col bianco di piombo: per provare l’ancora intentato prima in arte. Giotto ha veramente camminato sulle spalle di un gigante; quelli che vengono dopo, ci ricorda Tarozzi, non sono mai giganti da soli, anche la storia dell’arte ce lo prova. Forse (pensiamo, guardando Lei) Dante ha sbagliato dicendo che “Credette Cimabue ne la pittura/ tener lo campo” (Purgatorio XI). Forse il campo l’ha tenuto davvero, Cimabue, non meno di Giotto. Il campo largo dell’occhio e della carne.
Il racconto va avanti. Anche nel manto blu notte della Madonna ci sono varie lacune, perché ci sono stati molti che, nei secoli, volevano che la loro candela le ardesse più vicino di tutte le altre, che le loro domande fossero così vicine da bruciare. Le ferite nel manto sono il segno di queste fiamme. Alla luce ultravioletta, poi, il volto e il corpo del Bambino e della Vergine sono fitti di piccolissimi buchini chiusi dai restauri. Che cos’è questa lebbra nascosta ai nostri occhi, e chi l’ha generata? La risposta è l’irriverenza degli amanti che, con la loro fiducia totale nella Madre, hanno riempito di “pizzini” (così li chiama Tarozzi, per spiegarci che si tratta di bigliettini di richiesta fissati con spilli ovunque ci fosse un posto libero, soprattutto sul corpo del Bambino) la parte della pala libera dalla copertura tardo-cinquecentesca del Passerotti, che l’aveva trasformata, con una sovraccoperta di tela, nella Madonna dei Profeti. Scopriamo che la devozione a questa immagine, a quanto pare, è addirittura antecedente a quella della Madonna di san Luca, e ha plasmato anche architettonicamente un intero isolato della città medievale.
Gli amanti irriverenti sono quelli che osano chiedere grazie particolarissime, e che devono stare il più vicino possibile al viso, alla bocca, ai capelli dell’Amato e di sua Madre, in modo da poter tirare un sospiro di sollievo, quando escono, sapendo che la loro supplica è al posto giusto, come i trovatori e i poeti medievali che parlano della propria follia d’amore.
La stessa amorevole irriverenza sta portando l’équipe dei restauratori (in un lavoro serratissimo di confronto e nudità intellettuale, nella consapevolezza di essere al servizio dell’opera e di chi la guarda) a decidere di reintegrare alcune delle lacune del manto, in modo che non siano immediatamente riconoscibili, per non interrompere la bellezza verticale della caduta del manto, in un punto in cui c’è la certezza di quale fosse il dettato dell’originale perduto. Una bestemmia, certo, in termini di storia e filologia del restauro. Ma Tarozzi non ha paura di quello che sostiene, perciò intende questo restauro come una proposta che potrà essere cambiata con grande facilità da chi interverrà dopo di lui. C’è però un’autorità che lo conforta in questa scelta, ci dice: l’autorevolezza della figura umana. L’autorevolezza della figura umana di lei, e del suo autore, che per primo ha rimesso la carne (mani, ginocchia, gomiti, il seno a cui si appoggia il Bambino) sotto ai tessuti delle immagini sacre.
Il nostro tempo è scaduto, e usciamo, ma non riusciamo a smettere di fargli domande, pieni come siamo di tutte queste storie che ci risuonano dentro. Mentre lo ascolto parlare fuori, sul marciapiede stretto di Riva di Reno, di altri amori, di Iosselliani e della Persia antica, del farsi che ha imparato lavorando in Iran, dell’amore per la propria laicità, che diventa amore per la verità che ci comunica la storia dell’arte, capisco che il sangue che ribolle nelle vene, la gioia di questo tardo pomeriggio è per la Maestà di Cimabue, sì. Ma anche per la maestà di quest’uomo che, ferocemente innamorato di ciò che gli dona il suo lavoro, scopre più cose con l’amore che non con la tecnica, mettendo l’una al servizio dell’altro.
Davanti a un uomo che guarda, pieno di tutta la sua cultura ma anche di tutto il suo essere vivo nell’oggi, anche un’opera così antica torna viva, torna presente, si fa contemporanea senza rinnegare la sua storia. Ma dev’essere un uomo così: un uomo innamorato della regalità di lei, ma anche della regalità dell’Uomo, compreso l’uomo Cimabue (sulle cui spalle salì Giotto, e con lui tutto il realismo occidentale).
Quello che nessuna bomba può cancellare, quello che ha plasmato la nostra identità per millenni e che può ancora essere un contributo a un mondo in fiamme, la nostra più grande libertà credo sia questo: chi non può inginocchiarsi a Dio, può sempre, a testa alta, inginocchiarsi davanti all’uomo, di cui il Salmo dice “poco meno degli angeli l’hai fatto”. E’ di questa visionarietà, di questa fame che il nostro stanco Occidente ha bisogno. Di ripartire così, dal basso, da un corpo di carne che ritorna dentro ai tessuti, e che getta a noi un ponte contro il Nulla. Così da ritornare ad essere, noi, degli amanti autenticamente irriverenti.
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La Madonna di Cimabue è ancora visitabile, previo contatto con la Fondazione Lercaro.
www.fondazionelercaro.itPrenotazioni per le visite: Raccolta Lercaro, via Riva di Reno 57, Bologna. 0516566210 – 211
mail: segreteria@raccoltalercaro.it