Il giudice e il suo boia: il romanzo breve — o racconto lungo — che segna il felice esordio letterario del noto scrittore elvetico Friedrich Dürrenmatt (1921-1990) è stato recentemente pubblicato dalla Casa Editrice Adelphi, in occasione del venticinquesimo anno dalla sua scomparsa, a cura della brava traduttrice Donata Berra. Il genere a cui appartiene la narrazione a tutta prima sembra essere il giallo o il noir; ma considerare tale significativa opera dürrenmattiana meramente all’insegna del romanzo criminale mi pare formula riduttiva e furviante. Per dirla in tedesco, una precisa Weltanschauung, una inequivocabile visione del mondo oltremodo pessimistica sta alla base del testo. La giustizia quale risultato del meccanismo investigativo-giudiziario non solo è problematica, controversa, discutibile se non iniqua, ma soprattutto spesso non riesce a cogliere quanto può risultare davvero moralmente condannabile al di là dell’infrazione a questa o quella legge/regola. Esiste inoltre un’irrimediabile asimmetria tra pena e delitto che nessuna giurisprudenza può illudersi di armonizzare; da cui il duplice interrogativo: è possibile un’autentica giustizia? E chi può ardire di averla mai realizzata?
Ne Il giudice e il suo boia, abbiamo a che fare con due personaggi principali: un criminalista (il commissario svizzero Bärlach) ed un criminale (l’efferato avventuriero Gastmann), che da anni si fronteggiano avendo in gioventù l’investigatore accettato la scommessa propostagli dal suo avversario, deciso a “compiere un delitto in tua presenza, senza che tu fossi poi in grado di fornirne le prove”. Detto omicidio gratuito — allora perpetrato da Gastmann per il gusto di una siffatta sfida — è sempre rimasto impunito, anzi il criminale non ha mai cessato di delinquere; tuttavia i due accaniti antagonisti si incontreranno fatalmente per l’ennesima volta e Bärlach trionferà sul suo vecchio nemico, facendolo paradossalmente giustiziare per un assassinio che non ha commesso.
L’anticonformista Gastmann incarna la figura dell’efferatezza più estrema o forse, meglio ancora, del nichilismo. Poiché, non facendo sua alcuna etica e aborrendo ogni valore come ogni norma, egli si considera al di là del bene e del male: pronto a commettere per tornaconto o puro piacere qualunque tipo di reato come anche, all’occorrenza, un gesto magnanimo: “facendo del bene per spavalderia, se ne avevo voglia o, al contrario, indulgendo al male, secondo il ghiribizzo”. Il piccolo borghese Bärlach, invece, vorrebbe quanto meno realizzare la sua minuscola, privatissima opera di giustizia, punendo quello che risulta senz’altro colpevole, ma finendo altresì per compiere un abuso di potere che si rivela appena una forma mascherata di vendetta: atroce alla pari del primo delitto di Gastmann.
Così vittime e carnefici si scambiano di ruolo e risulta impossibile tracciare una netta linea di demarcazione che li distingua. Innocenza e colpevolezza paiono qui confondersi e il messaggio pessimistico di Dürrenmatt si fa esplicito: è del tutto illusorio sperare in una giustizia umana riparatrice. Ogni tipo di violenza non fa altro che innescare, per reazione, una violenza ulteriore.
Così l’omicidio — questa estrema forma di aggressività intraspecifica, che gli animali non conoscono, giacché uccidono solo membri delle altre specie per nutrirsi — appare caratteristica negativa peculiare dell’homo sapiens: tratto ancestrale (basti pensare al gesto omicida di Caino che inaugura giusto un’interminabile serie di messe a morte di umani) destinato a perpetuarsi sino ai giorni nostri e certo anche nel futuro.
Il commissario Bärlach, quindi, ossessionato dalla colpa altrui, volendo ad ogni costo restaurare il rispetto per le regole e l’ordine infranto finisce per ergersi a giudice inappellabile. Tracotanza estrema che lo trasformerà — sia pure non materialmente — in boia. Morale sconsolata e sconsolante del romanzo: non c’è modo di sottrarsi al male che tutto e tutti contamina. In alternativa a ciò, tuttavia, si potrebbe auspicare l’opzione della non-rivalsa, rigettando quanto meno una giustizia basata sul tradizionale binomio: occhio per occhio, dente per dente; magari riflettendo su quanto sia sempre valida la scelta evangelica del perdono e del rifiuto di ogni tipo di vendetta/rappresaglia quale unica possibilità di sottrarsi alla violenza imperante.