Ci sono esperienze letterarie e umane che possono percorrere un tragitto contrario a quello della storia della nazione in cui si sono svolte. In questo modo, ad esempio, Tat’jana Kasatkina racconta la vita di Dostoevskij: da una parte la Russia dei suoi tempi percorreva la parabola della perdita della fede e della mentalità tradizionali, abbracciando successivamente la rivolta terroristica e rivoluzionaria per instaurare infine una dittatura atea e totalitaria che ha soffocato con il sangue e la violenza ogni posizione e ideale non allineato; dall’altra il grande scrittore, partendo da posizioni perlomeno agnostiche e dall’adesione agli ideali socialisti e rivoluzionari della giovinezza, giungeva, attraverso la sofferenza della prigionia in Siberia, alla riscoperta della fede e del cuore profondamente religioso del suo popolo.
Nel suo piccolo anche la storia del poeta italiano Clemente Rebora compie un tragitto simile. Nato nel 1885 in una famiglia risorgimentista e mazziniana, totalmente avversa alla tradizione cattolica lombarda (Rebora era milanese e fu battezzato quasi clandestinamente, su insistenza di una nonna), attraversò la sofferenza dei primi anni del Novecento, fu ferito durante la prima guerra mondiale e visse un inquieto rapporto d’amore con la musicista russa Lidia Natus, con la quale convisse in Via Tadino a Milano, cosa che per quei tempi, persino per una famiglia laicista come la sua, era decisamente scandalosa. La profonda crisi che seguì a queste vicende, assieme alla conoscenza di persone che non lo abbandonarono a se stesso, gli permise lungo gli anni Venti di avvicinarsi alla fede cristiana, dei cui fondamenti era totalmente all’oscuro, e di abbracciare infine la vocazione sacerdotale nell’ordine dei Rosminiani. Fu quindi sacerdote negli anni Trenta, Quaranta e inizio Cinquanta soprattutto a Rovereto, quando si ammalò gravemente passando gli ultimi due anni infermo a letto a Stresa, dove morì nel 1957 e dove è sepolto.
La sua poesia non ha fatto che accompagnare la sua esperienza. Così la sua raccolta d’esordio, che è anche la più corposa, risale al 1913: si tratta dei Frammenti lirici, fortemente caratterizzati da uno stile dannunziano: d’altronde D’Annunzio è una presenza talmente ingombrante a quell’epoca che la storia dei poeti italiani del primo Novecento può essere raccontata come inesausto tentativo di liberarsi di quel padre-padrone la cui figura occludeva la vista di chiunque si azzardasse a mettere giù versi. Queste poesie però sono già pulsanti delle sue drammatiche domande di senso. Quasi dieci anni dopo, nel 1922, usciranno i Canti anonimi, seconda smilza raccolta con poesie del nuovo stile, più semplice e trasparente, di un Rebora che ha attraversato il lavacro della tragedia bellica e personale, a cui appartiene anche il suo testo più conosciuto, Dall’imagine tesa. Infine un lungo silenzio editoriale durato più di trent’anni, ma non compositivo: le ultime poesie, soprattutto la splendida raccolta dei Canti dell’infermità, che Giovanni Raboni considerava uno dei più bei libri della letteratura italiana, sono un canto a Dio, a Gesù e a Maria fatto da un uomo che, pur ferito e malato, non ha perduto la letizia e la luce della fede.
Rebora patì a lungo l’indifferenza verso la sua opera da un secolo, il Ventesimo, che non è stato tenero verso gli autori che hanno accolto Gesù Cristo nelle loro parole. Si è parlato a lungo di un primo e un secondo Rebora, divisi dalla conversione. Una categoria critica che non ha senso, perché anche solo da un punto di vista stilistico balza agli occhi come il vero spartiacque della sua vicenda poetica e umana sia stata la prima guerra mondiale, essendo la raccolta del 1922 già vicinissima alle sue poesie estreme. Ma è ancor meglio considerare l’avventura di Rebora come un tragitto senza soluzione di continuità, perfettamente coerente a se stesso e alle sue domande dall’inizio alla fine. Chi rimase sempre fedele a Rebora furono i poeti: Pasolini, Caproni, Betocchi, Valeri e tanti altri non lo dimenticarono mai e salutarono immediatamente il suo ritorno alle stampe quando ciò avvenne negli anni Cinquanta; Montale andò a trovarlo quand’era infermo a Stresa. A loro non dava fastidio quel parlare di Cristo perché le antenne dei poeti autentici captavano il grande valore della sua poesia. Che rimane per tutto il secolo, e continua oggi, una filigrana dorata nel lavoro degli altri autori. I prelievi reboriani di Montale, senza nulla togliere al gran poeta ligure, sono ampiamente dimostrati.
D’altronde la genialità linguistica e poetica di Rebora è straordinaria e di un’originalità quasi miracolosa. Basti vedere l’uso che fa, assolutamente profondo e altissimo allo stesso tempo, della metafora. La sua opera è un deposito di figure, di espressioni, di soluzioni stilistiche talmente esemplari che fornirà ancora per molti anni energia a tutti coloro che vorranno attingervi. Che non sia largamente insegnato a scuola è dovuto solo al vergognoso ideologismo con cui ancora oggi viene visto ogni autore che abbia espresso nella sua opera la fede cattolica. Opera adesso raccolta in un ottimo Meridiano Mondadori, in quella cioè che è un po’ considerata la biblioteca d’Italia. Un libro fatto assai bene, immancabile alle biblioteche pubbliche e familiari, che raccoglie non solo le poesie, ordinate con perfetto criterio, tenuto conto degli innumerevoli testi sparsi e d’occasione che Rebora scrisse e che non rientrarono in nessuna delle raccolte pubblicate in vita; il Meridiano raccoglie infatti anche le prose, gli interventi critici migliori (fu tra i primi a scrivere del rapporto tra Leopardi e la musica), e le traduzioni dei classici russi, come Tolstoj, Andreev o Gogol’, che Clemente Rebora fece nel periodo più drammatico e fecondo della sua ricerca di uomo e poeta.