Ben prima che si palesasse la crisi tra Russia e Turchia (espressione di una contesa geopolitica che risulterebbe superficiale limitare agli episodi contingenti). Ben prima che le inchieste dimostrassero, all’interno dei singoli Stati della Ue o nel quadro di ancora inesplorate prassi di cooperazione giudiziaria, la presenza nel cuore dell’Europa di cellule estremistiche inclini alla propaganda del califfato. Ben prima che la Nato discutesse, a fini evidentemente geostrategici, dell’associazione del Montenegro. Ben prima che le Repubbliche baltiche divenissero l’avamposto politico-culturale e politico-economico delle istituzioni euro-unitarie nelle regioni ex-sovietiche. Ben prima che i flussi migratori dalla Romania innescassero profili di allarme sulle popolazioni gitane (la cui migrazione e la cui stanzialità allogena sono di gran lunga più risalenti dell’ingresso della Romania nella Ue). Ben prima che i farraginosi programmi sui flussi adottati a Bruxelles e nei vertici multilaterali dimostrassero più o meno correttamente, ma di sicuro in ritardo, che anche le migrazioni provenienti dall’Africa avevano un canale “balcanico” attraverso cui “approcciare” il Vecchio Continente. Ben prima che la crisi ucraina palesasse le porosità di un’area del Continente dove gli interessi internazionali sembrano ancor più invasivi di quelli zonali… prima di tutto questo, a chi avesse voluto comprendere e intendere, poteva risultare chiaro che il futuro della cooperazione internazionale e della risoluzione dei conflitti non sarebbe potuto che passare da una decisa valorizzazione e da un’accorta valutazione dei processi in atto nell’Europa Orientale. 



Rimuovere questo dato di fatto significa non dotarsi di strumenti efficaci nel risolvere i problemi. Fino alla caduta del Muro di Berlino (o, più probabilmente, almeno fino all’inizio degli anni Ottanta), l’Europa orientale, sul piano della diplomazia internazionale come su quello della comparazione giuridica tra ordinamenti costituzionali e della percezione pubblica, iniziava ad Est dell’Italia e finiva a ridosso della Cina. Il modello socialista si spingeva poi, per il tramite degli Stati asiatici, fino al capo opposto dell’oceano. E, a Sud e a Sud Est, la presa di forme di incerta propaganda a cavallo tra marxismo e islamismo politico era difficilmente revocabile in dubbio. La geopolitica internazionale ha letto la frantumazione seguita al 1989 come un’implosione. Errore esiziale, per la storia, per il diritto, per l’economia e la stessa sicurezza pubblica. Quella frantumazione è stata, al contrario, macroscopica evidenziazione di realtà particolari che era stato agevole (e conveniente) rileggere con l’unica grande categoria dell’Altro (diverso o nemico, o entrambe, qui ancora non rileva). 



Le tensioni presenti dovrebbero dimostrare che l’interlocuzione della Ue deve necessariamente essere ripensata e impostata nel solco del recupero di quelle differenze troppo spesso negate. Altrimenti il continente, oltre che sul piano economico dove ha preferito orientamenti di bilancio a strategie di crescita, sarà condannato a restare vita natural durante coi piedi d’argilla anche nella comunità internazionale. 

L’Europa dell’Est, da qualunque punto di vista la si guardi (demografico, religioso, giuridico-religioso), più che per l’omogeneità, si connota oggi per l’intrinseca varietà e contraddittorietà. Suggestiva per lo studioso, ma oltre tutto di enormi conseguenze pratiche per la governance. Quello che era stato artificialmente tenuto sotto la stessa etichetta, il liquido con cui era stata riempita la stessa bottiglia, come magma vulcanico, finalmente può diffondersi in mille rivoli. 



È, ad esempio, a dir poco curioso che susciti meraviglia il radicamento del proselitismo islamico (anche quello fondamentalista) in Albania, in Macedonia, nel Kosovo o nella Serbia. Non solo in alcune regioni dell’Europa continentale la pratica e la cultura islamiche non sono buone ultime arrivate, ma ormai vero e proprio patrimonio tradizionale maggioritario. Ancor più, era da tempo chiaro che, per la sua stessa natura geografica e strategica, quella regione europea potesse divenire crocevia delle istanze più remote e disparate. 

Come ha un che di sorprendente che si guardi ai recenti processi di politica parlamentare e, talvolta, di costituzionalizzazione nel resto dell’Europa dell’Est come a inspiegabili forme di oscurantismo di esclusiva matrice religiosa. Ora un cattolicesimo inteso come fattore di coesione nazionale, ora una Chiesa ortodossa autocefala che è in re ipsa elemento cardine dei valori diffusi e delle culture nazionali. Nemmeno i decenni di paradigmi regolativi socialisti hanno cancellato le strutture portanti dell’agire sociale: la caduta dei divieti, del regime di spoliazioni, delle inibizioni… ha reso preponderante e visibile qualcosa che già intimamente albergava nel sentire comune. In altre parole, è stucchevole che la critica internazionale all’Ungheria si soffermi sul deficit di protezione dei nuovi diritti civili o che quella alla Bielorussia si limiti a riscontrare le aporie e le negazioni nel quadro delle libertà politiche. Cosa sappiamo dire sulle cause di questi fenomeni, prima di valutarli davvero come tali? 

Bisognerebbe ammettere, nell’un caso, che l’argomentazione religiosa ha ancora un significato profondissimo nella legittimazione politica e che il dato controverso è semmai quel che si immagina di riuscire a giustificare con la religione (e che, semmai, con la religione dovrebbe avere poco a che fare). E nell’altro bisognerebbe sapere dire con chiarezza che la caduta dei regimi filo-sovietici ha artificialmente modellato le strutture costituzionali, ma non è affatto riuscita a determinare la rigenerazione virtuosa di una classe dirigente. Considerazioni, del resto, nell’impianto, ma solo nell’impianto, riferibili anche alla vicina Ucraina. 

La cultura europea occidentale, la sua intellighenzia, la sua amministrazione politica e, talvolta, persino i suoi stessi operatori giuridici hanno preferito non guardare alla tipicità: troppo complessa, troppo irriducibile. Hanno ritenuto che dal soviet si sarebbe arrivati all’euro. E magari al fast-food. Per altro verso, il fast-food, probabilmente, è arrivato prima e meglio dell’euro.  

Ricordiamo gli Europei di calcio del 2012 in Ucraina (ancora) e Polonia… nessuno, nel gotha del football, che si ponesse il tema della situazione reale di quei Paesi. Della difficile ricostruzione democratica della Polonia, a lungo incentivata da Giovanni Paolo II e non sempre tradottasi in istituzioni giuridiche rispondenti sul piano politico-statuale. Dell’elevata conflittualità civile in Ucraina. Gli unici refoli di dimensione umanitaria sono stati smossi dall’occasionale preoccupazione — in effetti, dimostratasi reale — del contingente aumento della prostituzione a “beneficio” del sollazzo degli uomini dell’Ovest. 

Ora, le agenzie di stampa ci costringono a misurarci con due contingenze. Innanzitutto, la posizione della Russia nello scacchiere politico internazionale. Magari non immune da isolazionismi, ma da reinserire nel quadro di una strategia comune, dove il governo moscovita appare persino avere più titolo a parlare di molti governi occidentali. E, non ultima, la progressiva scoperta di basi, campi di addestramento, centri di propaganda e quant’altro nel cuore dell’Europa carpazica, balcanica (dopo Trieste e fino agli Urali, si sarebbe detto una volta). 

Il vero interrogativo da porsi non è, però, a senso unico: che succederà? Molto più onestamente dovremmo avere il coraggio di chiederci: ma cosa sappiamo davvero dei nostri vicini di casa?