1857. Nello stesso anno a Parigi furono pubblicate due opere che segnano l’avvento della modernità, Madame Bovary di Gustave Flaubert (1821-1880) e Les fleurs du mal di Charles Baudelaire (1821-1867), i cui autori furono processati per immoralità. In un recente articolo il filosofo francese Olivier Rey, recensendo l’opera filologica, monumentale dell’americano Peter Roger sul romanzo flaubertiano, scrive: “Dopo che il Cosmo finito, gerarchicamente ordinato degli antichi e dei medievali, ha lasciato spazio all’universo senza frontiere e omogeneo della nuova scienza, e si è staccata ‘la legge morale dal cielo stellato’, ciò che permette di superare la giustapposizione e ridare unità al mondo diviso tra fatti e valori, quel che resta da trovare è il luogo che ridia unità all’esistenza e che viene identificato nel sentimento estetico“. 



L’itinerario della poesia di Baudelaire, infatti, nella parabola tra “spleen e ideal“, si afferma con questa originale ferita e muove dal desiderio di ritrovare una bellezza che salvi dall’alienazione del mondo. “L’ebrezza dell’Arte — scriveva in Une mort heroiqueè più adatta di qualunque altra a nascondere i terrori dell’abisso“, cioè il vuoto del mondo e il vuoto della coscienza (commenta J.P. Richard). 



Anche Flaubert sembra ricercare una novità, diversa dalla “realtà da cui volle sfuggire, ora appesantendosi nella carnalità più greve, ora sublimandosi … nell’annullamento di tutte le religioni e annullandosi nell’agnosticismo panteistico dei moderni” (così si esprimeva nel 1911 il grande Emilio Cecchi). Questa ricerca del Nuovo, se  accomuna i due autori, definisce e determina due percorsi differenti, dei quali quello poetico è molto più fecondo, fino a segnare le grandi avanguardie del Novecento.

Il romanzo, pubblicato a puntate ne La Revue de Paris dal 1° ottobre 1856, fu messo sotto inchiesta per oltraggio alla morale pubblica: in esso, infatti, non si condanna in alcun modo l’adulterio, ma se ne parla liberamente; l’intento di Flaubert era quello di portare alla luce la scarsa educazione sentimentale e sessuale che le donne del suo tempo ricevevano (come poi farà Émile Zola per La Joie de vivre), criticando severamente la lettura di romanzi sentimentali.  



Per scrivere questa storia, Flaubert si ispira a fatti realmente accaduti nella provincia normanna alla giovane Delphine Delamare, del cui suicidio si parlò sui quotidiani locali del 1851. Seguendo il suggerimento degli amici, per sfuggire le fumose spiritualizzazioni dei racconti precedenti compone un’opera realista, secondo i dettami della moda balzachiana. All’indomani del processo il critico Saint-Beuve ne segnalava la novità stilistica, “un’arte che sembra mirare all’impietosa verità dell’esperienza … un’opera interamente impersonale”, indirettamente ricalcando così una famosa affermazione dello stesso Flaubert in una lettera del marzo del 1857 alla signorina Leroyer de Chantepie, “l’artista nella sua creazione deve essere come Dio nella Creazione, sì che ovunque lo si senta ma non lo si veda mai”; una lettera in cui poco prima dichiarava “Madame Bovary non ha nulla di vero. E’ una storia completamente inventata; non vi ho messo nulla dei miei sentimenti né della mia esistenza. L’illusione (se pur c’è) proviene proprio dall’impersonalità dell’opera“.

Rimane aperta, allora, la questione: Flaubert parte dal fatto di cronaca o dalla pura  invenzione?  

Al di là delle dinamiche del processo artistico e dalla necessità di difendersi in Tribunale, il romanziere crea un’opera nuova, non solo nello stile, ma nella stessa concezione dell’arte e dell’esistenza; e realizza una figura unica nell’arte moderna che, come altri personaggi letterari — Amleto, Don Chisciotte, Don Giovanni, Faust — è al medesimo tempo personaggio e figura, archetipo mitologico. La critica ha parlato spesso di “bovarismo” (già J. De Gaultier, 1909), quasi segnalando una malattia spirituale le cui radici permettono di comprendere che la sua natura non è tanto psicologica, bensì ontologica: Madame Bovary, come affermava Benedetto Croce, “perduta la fede religiosa e non perduto l’anelito all’infinito … si torturava nei sogni dell’impossibile” (1923).

In effetti lo stesso Flaubert dopo il suo viaggio in Oriente fra il 1849-50, 15 mesi di entusiasmo e malumore, di fascino e insofferenza, scopre che l’Altrove è un’illusione, non c’è un luogo da raggiungere ed in cui esser felici; e per quasi cinque anni si dedica alla scrittura e riscrittura del suo capolavoro. Possiamo, perciò, rispondere alla domanda precedente e notare come agiscano in un autore “argomenti e dati di cronaca che toccano fibre profonde e stimolano a dar forma e figura e immagine a realtà interiori” (M. Vargas Llosa, 1975) e comprendere la portata ironica e seria della famosa affermazione dello scrittore, “Madame Bovary sono io“.

Il personaggio vive totalmente nella dimensione del sogno, fin da quando ascoltava nel collegio dalle suore le novelle ed i racconti da una anziana sarta, dei quali prediligeva quelli amorosi; così l’autore scrive, “dotata com’era di temperamento più sentimentale che artistico, cercava emozioni e non paesaggi”. Come i contemporanei pittori impressionisti, Flaubert dissocia la sensazione globale in una moltitudine di piccole sensazioni, pure e contrastanti; una libertà che sarebbe stata impossibile senza la preventiva volatizzazione della materia. In un certo senso l’inconsistenza delle descrizioni dei paesaggi riflette la percezione del suo tempo, quell’indeterminatezza della realtà che caratterizza Emma.  

Già Paul Bourget, il grande romanziere di fine Ottocento, psicologo che pure influenzò il filosofo F. Nietzsche, notava che nei personaggi flaubertiani “il pensiero precede l’esperienza, invece di sottomettervisi… La creatura umana, quale la mostra Flaubert, si isola dalla realtà…; sempre l’autore attribuisce alla Letteratura (nella più larga accezione del termine) l’origine di quello squilibrio. Emma ha letto romanzi e poesie”; una vita da sogno come nel famoso episodio del Teatro di Rouen, quando assiste alla Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti.

Emma, come l’autore dice nelle sue Corrispondenze, può affermare: “Osservare, pensare, amare significa in un certo modo divorare l’oggetto”, la persona, la vita; Emma, in effetti, ama come se divorasse quanto la circonda. Come scrive J.P. Richard “c’è una fondamentale avidità, una mancanza di ritegno”, come nel rapporto con Leòn, “il loro animo e tutti i loro sensi erano a malapena sufficienti per l’avidità che li possedeva completamente”.

Come affermava B. Croce, “Emma si sente superiore a ogni legge morale che non sia quella del suo sogno, della sua brama, della sua passione”. Dopo essersi abbonata alle riviste di moda e del Bel mondo parigino, l’autore nota che “ella confondeva, nel suo desiderio, la sensualità del lusso con le gioie del cuore, l’eleganza delle abitudini con le delicatezze del sentimento; ma in questa condizione rimane una profonda inquietudine, quasi avvertendo la disillusione e la vanità di tutti i propri sogni, luccicanti ma effimeri. Non è più la vita immersa nel mare dell’Essere, come nella poesia dantesca; rimangono, come dirà Rimbaud, “le pozzanghere della vecchia Europa“.

In fondo al cuore aspettava un avvenimento. Come i marinai in pericolo, girava occhi disperati sulla solitudine della sua vita cercando lontano qualche vela bianca tra le brume dell’orizzonte. Non sapeva cosa le sarebbe toccato, qual vento avrebbe spinto fino a lei quella vela, su quale riva l’avrebbe condotta, se sarebbe stata una scialuppa o un gran vascello a tre ponti, carico d’angoscia o pieno di felicità fino ai portelli. Ma, ogni mattina, nello svegliarsi, ella sperava per quel giorno, e ascoltava ogni rumore, si alzava di soprassalto, si stupiva che nulla accadesse; poi, al tramonto, sempre più triste, desiderava trovarsi all’indomani”.

In seguito, anche nel rapporto con Leon, permane questa inquietudine di felicità; Flaubert scrive che “ella credeva che l’amore dovesse arrivare d’improvviso, con fragori e folgori; uragano dei cieli che cade sulla vita, la sconvolge, strappa via la volontà come le foglie, e trascina all’abisso il cuore intero”. 

Cominciava a sentire quell’abbattimento che viene dalla ripetizione di una vita sempre uguale, quando manca un interesse che la diriga o una speranza che la sostenga. “Boccheggia in cerca dell’amore, come un carpione cerca l’acqua sulla tavola da cucina“. E perciò, a malincuore, diceva a se stessa: Se avessi avuto uno scopo nella vita, se avessi incontrato un affetto, se avessi trovato qualcuno … avrei dato tutte le mie energie, avrei superato tutto, spezzato tutto! La realtà non rimanda a nulla, la natura stessa, nella sua bellezza e armonia non è più segno e tutto è sciupato dalla immediatezza e dalla istintiva reattività.

“Prima di sposarsi, … aveva creduto d’amare; ma la felicità che avrebbe dovuto nascere da quell’amore non era venuta, e pensava che doveva essersi sbagliata”. 

Seguendo un’altra acuta osservazione di P. Bourget, “l’essere, riducendosi ad una vita puramente fenomenica, non sarà nient’altro che la successione dei suoi stati” e nulla verrà più a battere nel cuore dei personaggi. In tal modo la memoria del passato dilania Emma, fin da quando, appena sposata, vede sfilare davanti a sé le immagini della giovinezza; e, ancor più drammaticamente, accadrà alla fine della sua esistenza, ormai delusa e sola, quando dice “Si sente il bisogno di confidare a quella persona tutta la propria vita, di darle tutto, di sacrificarle tutto! Non ci si spiega più, ci si intuisce … Finalmente è là quel tesoro tanto cercato, là davanti a noi; brilla, risplende. Eppure se ne dubita ancora, non si osa credervi; si rimane abbagliati come uscendo dalle tenebre alla luce“. 

E, più avanti, esclamerà: “Quanta felicità in quei tempi! Che libertà, che speranza! Che ricchezza d’illusioni! Oggi, non restava più nulla. Le aveva consumate in tutte le avventure dell’anima sua, in tutte le situazioni successive, nella verginità, nel matrimonio, nell’amore; perdendole così, continuamente, nel corso della sua vita, come un viaggiatore che lasci un po’ della sua ricchezza in tutti gli alberghi lungo la strada“. 

Ormai neanche i segni della fede, ai suoi occhi, nell’inconsistenza che attribuisce loro lo scrittore, possono consolare il grido della donna: “Spandere ai piedi di Cristo tutte le lacrime di un cuore ferito dall’esistenza”. Essa non era felice, non lo era mai stata. Da che dipendeva quella insufficienza della vita, quell’istantaneo imputridirsi delle cose alle quali si appoggiava? … Ma se esisteva in qualche luogo un essere forte e bello, una natura valorosa piena di esaltazione e di raffinatezza a un tempo, un cuore di poeta sotto forma di angelo … perché non avrebbe dovuto per caso incontrarlo? No, impossibile! Del resto, nulla valeva la pena d’una ricerca, tutto era menzogna! Ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio di noia, ogni gioia una maledizione, ogni piacere il suo disgusto, e i baci migliori lasciavano, sulle labbra, soltanto il desiderio irrealizzabile di una voluttà più alta“.

Così si conclude la vicenda della povera e sventurata Emma (direbbe Manzoni); è certo che Flaubert ne rimane apparentemente spettatore. Una sola cosa può fare l’uomo, egli scrive, osservare il reale e descriverne quella minima porzione che a lui è nota. Descrivere, senza trarre conclusioni, senza voler giudicare.

L’arte non potrà, dunque, essere che rappresentazione; l’artista — commenta Sergio Cigada — rappresenterà un mondo, un cosmo ormai orfano del cielo.