L’associazione degli atei italiani lamenta — a quanto riporta un’inchiesta de l’Espresso — che nel nostro Paese non ci sarebbe più la liberà di professare il proprio ateismo e di esercitare praticamente il proprio agnosticismo in materia religiosa. Dalle scuole agli ospedali, dalle Forze armate agli uffici pubblici, sembra che pesi ancora come un obbligo forzato l’ossequio a quella che, nonostante tutta la laicità dei nostri ordinamenti, resterebbe di fatto una “religione di Stato”. 



In realtà, quella che viene presentata come un’indebita ingerenza evidenzia semmai una situazione paradossale, e anche drammatica: proprio nel momento in cui alcune forme o riti religiosi vengono proposti, per così dire, “d’ufficio” in luoghi pubblici, essi evidenziano una debolezza di coscienza e di esperienza che a mala pena viene dissimulata dietro l’appello ad una lunga tradizione.



Con questo non voglio dire affatto che non debba essere più lecito esprimere e proporre la propria fede, attraverso dei gesti pubblici in luoghi pubblici, come alcuni si augurerebbero: si ricadrebbe così nel totalitarismo ideologico di chi, pur rivendicando giustamente il diritto di libertà individuale, e il dovere da parte dello Stato di non imporre una posizione sulle altre o di non censurare pregiudizialmente nessuna opzione religiosa (compresa quella di chi rifiuta ogni opzione religiosa), finisce per decidere a priori che la fede non può avere alcuna ragionevole valenza e presenza pubblica. Come è stato notato già da diversi anni, da parte degli studiosi più attenti delle società democratiche post-secolarizzate (pensiamo ad esempio a Jürgen Habermas o a Martha Nussbaum), la fede religiosa non può affatto essere archiviata come un residuo sub-culturale delle culture razionali e pluralistiche; al contrario, essa in molti casi costituisce una riserva di senso che anima e sostiene la vita delle persone: un significato ideale senza del quale molte delle scelte e delle azioni concrete dei singoli non sarebbero compiute, e lo stesso senso di appartenenza ad una comunità sociale verrebbe meno. 



Ma proprio questa considerazione ci permette di capire qual è la vera posta in gioco del problema che indirettamente — e forse al di là delle loro intenzioni — viene posto dai risentiti “atei” italiani: se cioè la fede religiosa, o meglio la fede cristiana, sia vissuta e proposta pubblicamente a partire da un’esperienza personale, quindi come un guadagno ragionevole e libero da parte dei soggetti individuali, o sia soltanto il residuo di una tradizione culturale e cultuale che, per quando importante e decisiva per la nostra storia, sarebbe inevitabilmente destinata all’estinzione. Magari non come assetto istituzionale, ma come esperienza dell'”io”. 

È ancora in grado la fede di determinare questa esperienza in maniera tale che in essa i soggetti umani possano, non mortificare, ma al contrario incrementare la loro ragione e la loro libertà? La fede permette di conoscere più a fondo il reale e di amare più intensamente il mondo? Non porsi questa domanda significherebbe inchiodare, e anche soffocare, la fede a un insieme di “credenze” morali e di richiami etici su quello che “dovrebbero essere” i singoli e le società, e che quasi sempre è determinato dalla mentalità culturale dominante. Con i due estremi di coloro che intendono il cristianesimo come una credenza civile e coloro che lo intendono invece come una mera credenza privata — in questo antitetici ma solidali. 

Non si tratta dunque di difendere “d’ufficio” la fede cristiana dagli attacchi strumentali degli atei, ma di chiedersi che tipo di proposta essa costituisca oggi nella nostra società e nella storia di ciascuno di noi. E questo significa invitare anche gli atei a comprendere con quale “ragione” essi escludano “d’ufficio” la possibilità di un senso della vita e del mondo che sia più grande di loro (cioè più grande rispetto alle strategie del potere economico e politico) e a quale scoperta, a quale novità li abbia condotti la loro libertà. Ma non sarebbe un invito retorico, come di chi sappia già la risposta dell’altro, bensì di qualcosa come un cammino comune, come un dialogo possibile: forse come un incontro.