La prima guerra combattuta dagli Stati Uniti al di fuori dai loro confini, tra 1801 e 1805, ebbe per teatro Tripoli e Derna e non quell’America Latina di cui la dottrina Monroe si sarebbe fatta garante oltre un decennio più tardi. La costa libica costituisce, infatti, una zona di conflitti a bassa intensità, che in particolari condizioni sfociano in confronti maggiori, in grado di coinvolgere anche le grandi potenze del periodo. 



La geografia è, come sempre, la causa remota di tale situazione: la Libia si affaccia sulla parte centrale del Mediterraneo, quella chiusa tra la Sicilia e l’isola di Creta, e le sue coste sono punteggiate da porti e insenature che fin dall’antichità portarono alla creazione di città quali Tripoli, Leptis Magna o Bengasi, importanti scali tra l’Egitto e Cartagine, prima, tra l’Egitto e Roma, poi. A causa dell’importanza dei suoi porti — spesso punto di arrivo delle piste commerciali transahariane — la Libia è diventata, nei secoli, terreno di conquista da parte di Egizi, Greci, Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini, Arabi, Normanni e, infine, Ottomani. Questi ultimi mantennero tra il XVI e il XX secolo un potere solo nominale sulla zona, accontentandosi dei tributi inviati loro dagli esponenti delle dinastie locali, la più longeva delle quali fu quella dei Karamanli (1711-1835), che aveva nel commercio degli schiavi e nella pirateria la maggiore fonte di entrate.



Proprio per contrastare la pirateria contro le proprie navi, gli Stati Uniti intervennero contro la Libia nel 1801-03 e, di nuovo, nel 1805, imponendo blocchi navali e attuando sbarchi di truppe che costrinsero il Bey (governatore) di Tripoli a cessare le azioni contro la flotta statunitense. Analogo effetto ebbe, nel 1825, l’intervento della Marina del Regno di Sardegna, che vide l’incendio di tre navi nel porto di Tripoli. 

La Libia è, dunque, una zona di importanza strategica per le vie di comunicazione tanto verso il centro dell’Africa quanto dall’Africa verso l’Europa e, ancora, tra il Mediterraneo orientale e quello occidentale. Tale importanza accrebbe notevolmente in seguito all’apertura del Canale di Suez e, più tardi, allo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi, che hanno reso il Paese uno tra i maggiori produttori di petrolio mondiali, tra i principali fornitori dell’Italia.



Le vicende della Libia nel Novecento vanno inquadrate in questo contesto, nel quale le condizioni internazionali hanno influenzato le vicende interne in modo spesso preponderante. Così, nel 1911 l’Italia intraprese la conquista della Libia anche per rispondere all’imposizione del protettorato sulla Tunisia (1881) da parte della Francia (e quest’ultima sostenne le forze ottomane con il contrabbando d’armi). Così, durante la Grande Guerra, la resistenza senussita fu alimentata anche dalla Germania, in guerra con l’Italia. 

Nel 1934, con Regio decreto n. 2012 del 3 dicembre sull’unione della Tripolitania e della Cirenaica italiana, fu proclamato il Governatorato Generale della Libia, e i cittadini islamici poterono godere dello status di «cittadini italiani libici». Mussolini si mantenne favorevole agli arabi libici, chiamandoli «Musulmani Italiani della Quarta Sponda d’Italia», fornendoli di villaggi, moschee, scuole e ospedali. Le scelte mussoliniane facevano propri i migliori esempi di pacificazione coloniale e, insieme, intendevano rappresentare un modello attrattivo per i popoli arabi soggetti al domino inglese, a partire da quello egiziano.

Sempre più crocevia strategico del Mediterraneo, pochi anni dopo, durante la seconda guerra mondiale la Libia divenne teatro di guerra perché le armate italo-tedesche cercavano di raggiungere Suez e tagliare i rifornimenti inglesi per l’India.  E l’importanza geopolitica della Libia subito dopo il 1945 è testimoniata dalla presenza di due basi militari straniere, quella statunitense di Wheelus Field e quella inglese di El-Adem, che assicuravano il controllo sull’area. In quegli anni, né la Francia impegnata in Algeria né l’Italia sconfitta potevano opporsi all’egemonia anglosassone, ma la situazione cambiò con la scoperta dei campi petroliferi, alla fine degli anni Cinquanta. La ricchezza portata dal petrolio trasformò la Libia e, soprattutto, la rese progressivamente indipendente dai finanziamenti americani. Contemporaneamente, la propaganda panarabista del presidente egiziano Nasser favoriva la nascita di movimenti avversi alla monarchia senussita di re Idris, giudicato troppo filoccidentale. 

Si giunse, così, al colpo di stato guidato dall’allora capitano Gheddafi, nel 1969. Al golpe non fu estranea l’Italia, che aveva già sostenuto l’indipendenza algerina ed era presente con l’Agip (che fu di Enrico Mattei sino al suo assassinio nel 1962) in Libia. L’Italia fornì l’appoggio dei propri servizi segreti e inviò anche mezzi corazzati per rinforzare l’esercito del giovane leader. Gheddafi, che fu espressione dell’affermazione dei clan tribali della Tripolitania, nel 1970 procedette alla nazionalizzazione dei beni dei coloni italiani, ponendo le basi per la loro successiva espulsione e del conseguente, tormentato rapporto tra Italia e Libia nell’ultimo quarantennio.

La parabola politica di Gheddafi e della “sua” Libia, che conduce sino all’epilogo durante la primavera araba del 2011, coincidente con la morte del rais, si incrociò spesso con la storia d’Italia più recente: basti qui ricordare il caso Ustica — su cui importanti riflessioni vengono ora formulate in una tesi di dottorato di Cora Ranci presso l’Università degli Studi di Bologna — ovvero l’abbattimento il 27 giugno 1980 di un aereo di linea DC-9 dell’Itavia diretto da Bologna a Palermo, a causa di un missile lanciato da un velivolo militare francese all’indirizzo di un caccia libico MiG-23 che, in sorvolo non autorizzato nei cieli italiani, avrebbe tentato di nascondersi nella traccia radar del DC-9.

E poi si ricordi il blitz militare americano sulla Libia 15 aprile 1986, ordinato dal presidente Ronald Reagan: dal massiccio bombardamento che ferì mortalmente sua figlia adottiva, il “Colonnello” sarebbe uscito illeso, perché preventivamente avvertito delle intenzioni statunitensi da Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio italiano.

Nonostante questo gesto, Gheddafi si servì ancora in seguito del rancore libico verso l’Italia per rinsaldare l’unità nazionale delle tribù, e per ribadire il proprio controllo sul paese. Ma anche per ottenere benefit economici dall’ex colonizzatore. Si arrivò così al 4 luglio del 1998, quando fu firmato a Roma il “Comunicato congiunto”, che prevedeva esborsi italiani in riparazione della passata dominazione fascista, un accordo che non venne comunque mai sottoposto a ratifica parlamentare. Si pensò poi a un gesto riparatorio simbolico, il “Grande Gesto”, che prevedeva la costruzione a spese italiane di un ospedale in Libia.

Più recentemente, negli anni Duemila, si produsse un più apprezzabile avvicinamento delle posizioni tra Italia e Libia, sancito da diverse visite ufficiali del capo libico in Italia e della controparte italiana in Libia. Nel 2004, il Mossad, la Cia e il Sismi individuarono una nave che recava a bordo prove sufficienti a dimostrare che il regime libico era in possesso di un arsenale di armi di distruzione di massa. In questa occasione Italia e Usa posero a Gheddafi un ultimatum, da lui accettato, impedendo così che la notizia divenisse pubblica.

Il 30 agosto 2008, nella città di Bengasi Gheddafi e Berlusconi firmarono un trattato di Amicizia e Cooperazione che comportava importanti oneri finanziari a carico dell’Italia, e definiva una cornice di partenariato tra i due paesi. Nel giugno dell’anno successivo Gheddafi avrebbe compiuto la sua prima visita a Roma, in un clima denso di contestazioni e, ciò nonostante, all’inizio della rivoluzione del 2011 l’Italia si sarebbe mostrata indubbiamente come il membro dell’Ue più “tentennante” nel condannare il regime libico, pur finendo per allinearsi con la posizione ufficiale assunta dalla Commissione, e offrire un appoggio “tecnico” all’operazione militare Odyssey Dawn, fornendo le basi militari di partenza.

Oggi, con il paese libico dilaniato dalle guerre intestine e ormai oggetto della penetrazione delle forze paramilitari del cosiddetto “stato islamico”, verrebbe anche da chiedersi se il ruolo svolto nelle ultime decadi da Gheddafi non sia stato — anche involontariamente — quello di “calmierare” le tensioni antiche del fondamentalismo antioccidentale sul margine della costa nordafricana. E non si possono qui dimenticare i forti interessi intrattenuti dall’Italia in Libia in ambito energetico sin dai tempi di Mattei. Certo se la “quarta sponda” oggi, oltre a lasciar transitare migliaia di esuli nei drammatici trasbordi sui gommoni verso il nostro Paese, non riuscisse a contenere la spinta aggressiva dell’Isis verso i limiti meridionali dell’Italia — che non paiono purtroppo, almeno sotto il profilo strategico militare e diplomatico, veri confini, così come risultano oggi trascurati da un’inesistente politica estera e di difesa dell’Unione Europea — ciò aprirebbe uno scenario di inedita e inaudita gravità sul piano internazionale.

C’è forse solo oggi da sperare che le feroci milizie islamiche siano maggiormente interessate ad accerchiare il “traditore” stato egiziano, e che ivi convergano i propri sforzi di sfondamento? E fino a quando?