Che le cose non vadano mai, o quasi mai, come ce le abbiamo in testa mi sembra difficile da contestare. Il punto è se questo scacco sia necessariamente una fregatura o se invece offra paradossalmente un’occasione; se la contraddizione che la realtà pone ai nostri progetti sia, in fondo, una sfida oppure una sfiga.
È qui che la poesia ci aiuta a vedere. Prendiamo L’Orlando furioso, il poema per eccellenza del Rinascimento italiano, di quel secolo che ha iniziato a illudere l’uomo che fosse capace di costruirsi il proprio destino. Orlando è un eroe valoroso, ed è innamorato di Angelica. Le vuol bene davvero, l’ha portata con sé dall’Oriente fino in Francia senza sfiorarla con un dito. Tanti cavalieri inseguono la bellissima principessa, ma nessuno è come lui: lui non è come Sacripante, il re di Circassia, affamato di cogliere «la fresca e matutina rosa» della verginità di Angelica, pronto a tutto pur di realizzare il suo «disegno» di conquista. Oltre che «saggio» — e questo lo sapevamo da qualche secolo —, lui è anche realmente «innamorato», come aveva aggiunto Boiardo. Ma da vero uomo moderno (perché non è più, soltanto, un cavaliere medievale, ma un «faber fortunae suae») un «disegno» in testa ce l’ha comunque, sebbene più nobile: siccome combatte per amore, è persuaso che Angelica debba ricambiarlo, appunto perché conquistata dal suo valore. Dal momento che — Francesca docet — «amor che a nullo amato amar perdona», Angelica dovrà innamorarsi: chi potrebbe amarla, e difenderla, meglio di lui?
Sarà anche una visione nobilissima, però Angelica finisce per diventare niente più che un «premio». Il problema è che Angelica, contro ogni pronostico, gli preferisce un soldatino qualsiasi di nome Medoro: «e sanza aver rispetto ch’ella fusse / figlia del maggior re ch’abbia il Levante, / da troppo amor constretta si condusse / a farsi moglie d’un povero fante». Angelica sposa Medoro. E Orlando impazzisce. In genere diciamo, alla stregua di Ariosto, che impazzisce per amore. In realtà però non è l’amore che lo fa impazzire. Lui è un uomo — ripetiamo i tre aggettivi — prima saggio, poi innamorato e infine furioso. Ma la furia non nasce dall’innamoramento come interruzione della saggezza, bensì dall’innamoramento come disegno della saggezza. Vale a dire: Orlando non impazzisce perché Angelica preferisce Medoro a lui, ma perché preferisce uno come Medoro a uno come lui; non perché non ottiene Angelica, ma perché non realizza il suo disegno di ottenerla. Ancora più semplicemente: impazzisce perché secondo lui il suo amore aveva tutte le carte in regola per andare in porto; impazzisce non tanto per un amore non corrisposto, ma perché un amore non corrisposto manda all’aria le sue carte, contraddice il piano che si era costruito. In termini rinascimentali, perché la fortuna vince la sua virtù: «O conte Orlando, o re di Circassia, / vostra inclita virtù, dite, che giova? / Vostro alto onor dite in che prezzo sia, / o che mercé vostro servir ritruova. / Mostratemi una sola cortesia / che mai costei v’usasse, o vecchia o nuova, / per ricompensa e guidardone e merto / di quanto avete già per lei sofferto».
Non tutti gli innamorati delusi, però, perdono il senno e si infuriano. Un caso su tutti? Dante. A lui è toccata una sorte non molto diversa da quella di Orlando: era innamorato di Beatrice, le scriveva poesie, ma Beatrice gli negò il saluto e poi si sposò con un altro, presumibilmente meno saggio e forse anche meno innamorato di Dante. Ma Dante non impazzì. Con Beatrice non gli andò bene, eppure Dante rimase innamorato e anche saggio: figuriamoci, la chiama perfino «lume tra ‘l vero e lo ‘ntelletto», come se lei, insomma, proprio lei, riuscisse a renderlo saggio: quella lei che lo aveva rifiutato.
Come mai questa differenza? Non credo dipenda soltanto da una questione di self control dantesco. C’è di più: c’è che, semplificando, per Dante (per un medievale) la realtà non coincide con i suoi disegni; per Ariosto (per un rinascimentale) questa non è più un’evidenza. Dante è innamorato di Beatrice ma sa di non essere nato per Beatrice: è nato per realizzare il suo fine di uomo, secondo la strada che la realtà, imprevedibilmente, gli indica. Orlando invece crede di essere nato per Angelica, come Didone credeva di essere nata per Enea e Ortis crederà di essere nato per Teresa.
Per questo, di fronte al mancato saluto di Beatrice o anche alla sua morte, Dante può chiedersi quale passo sia chiamato a compiere, e chi possa aiutarlo ad attraversare la «selva oscura»: «io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valeva alcuno. Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che si argomentava di sanare, provide, poi che né ‘l mio né l’altrui consolare valea, ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi». Saranno passi immensi, ben più grandi della consolazione, come quando succede che «l’uomo va cercando argento e fuori de la ‘ntenzione truova oro»: accorgersi che può amare senza chiedere nulla in cambio, che la sua felicità consiste in qualcosa «che non mi puote venire meno», e che in fondo ama, più ancora che la presenza fisica di Beatrice, quello che lei ha introdotto nella sua vita.
Se togliamo il nome di Orlando o di Dante e ci mettiamo il nostro, e se al posto di Angelica o di Beatrice ci mettiamo quello a cui punta il nostro disegno (il sì di una persona, la soluzione di un problema, il raggiungimento di un obiettivo, il miglioramento di certe condizioni oppure quel risultato, quel lavoro, quell’unione eccetera), ci rendiamo conto che sempre la poesia, «mutato nomine», parla di te.
Perché Angelica è la cosa che non va, magari quella più cara e che proprio non è come la pretendi tu, e Orlando sarà sempre il prototipo dell’uomo che non fa passi, perché non prende consapevolezza dei dati con cui la realtà lo provoca, dell’uomo che se lei dice di no sfascia tutto; mentre Dante da tutto è rimesso in questione: non si infuria perché la realtà dovrebbe cambiare assecondando i suoi progetti, ma è pronto a cambiare lui assecondando il movimento della realtà, a convertirsi continuamente, sempre teso al cenno nascosto negli eventi. La sua è la vita drammatica di chi, alla faccia di tutti i nervosissimi self made man, è obbediente e trionfante in un colpo solo.
Solo un nome non è interscambiabile, ed è l’interlocutore ultimo di tutta la storia: rispetto a quello, infatti, definitivamente, ciascuno è Orlando o è Dante, a seconda che in quel che capita legga solo il gioco della fortuna o anche il disegno di Dio. Entrambi furono sfortunati in amore, ma perché arrabbiarsi? pensava Dante, che pure ci stette male: «i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie», gli proponeva una saggezza antica quanto Isaia. Era un problema fastidioso, ma in fondo pacifico, con cui bisognava fare i conti. E apriva una grande questione: cosa voleva Dio da lui, perché gli rompeva le uova nel paniere e gli impediva di fondare la vita sui suoi (giusti) disegni. Orlando non poté pensarlo, perché aveva già deciso cosa doveva pensare Angelica e cosa doveva pensare Dio. A quel punto puoi anche rimanere il migliore tra i soldati cristiani, ma naufraghi nel vortice mentale della sindrome da sfortunato, e allora la realtà smette di parlare: è lei che dovrebbe star zitta ad ascoltare te, altrimenti diventi furioso («e se ben come Orlando ognun non smania, / suo furor mostra a qualch’altro segnale»). E se invece tutto quello che ci va contro fosse il modo più chiaro per farci trovare oro? Se la sconfitta potesse, anziché farci diventare furiosi, farci diventare Dante?