Inizi a leggere il libro e sembra che il freddo ti spacchi le ossa. E, come in un film, vedi la lunghissima fila di uomini oscillanti sulla neve. E ritorna l’ossessione di essere accerchiati dai russi. Sono queste le prime impressioni di un lettore che si riaccosta a I più non ritornano di Eugenio Corti, il diario che racconta la fine del 35° Corpo d’armata italiano sul Don. Un libro che, a tanti anni di distanza (uscì per la prima volta nel ’47), non ha perso nulla della sua bruciante bellezza, così votato a cercare la verità anche nell’abisso della guerra.
Corti scoprì la sua vocazione di scrittore leggendo Omero sui banchi di scuola, ma lo spartiacque della sua vita fu la campagna di Russia. Da oggi possiamo conoscere il volto “nascosto” di quella sua esperienza perché Vanda, l’inseparabile sposa, ha ritrovato nell’archivio di Besana Brianza un faldone che si credeva perduto: si tratta della corrispondenza completa di Eugenio, dal giorno in cui partì per il fronte orientale fino al telegramma, scritto con grafia tremante, in cui annunciava di essere vivo, di essere sfuggito alla “valle della morte” di Arbusov.
Corti scelse volontariamente la Russia per conoscere “un mondo nuovo completamente svincolato da Dio”. La sua tradotta partì il 9 giugno 1942 da Bologna e così scriveva dalla stazione ai suoi genitori: “Vedo questa mia partenza per la guerra inquadrata nei piani superiori della Provvidenza” e, ancora, “Parto sereno… ciò che viene dalle mani di Dio dà sempre gioia. E ricordatevi: tornerò. È chiaro che devo tornare: lo sento. Potrò magari essere ferito o esser dato disperso, ma di una cosa voglio che vi ricordiate assolutamente: che tornerò”.
La maggior parte delle lettere ritrovate sono per i genitori: vivacissime e dense di dettagli. Il dato più sorprendente è che forse rappresentano una sorta di Ur-Cavallo rosso. Alcuni particolari che colpirono il 21enne sottotenente di artiglieria sarebbero diventati, 40 anni più tardi, corposi paragrafi del suo celebre romanzo epico. Un esempio. Nelle lettera del 22 luglio Corti raccontò il primo incontro con i caduti russi: “I russi hanno ripiegato, ma alcuni sono rimasti sui bordi della trincea con lo sguardo rivolto al cielo o il volto contro la terra. Buoni soldati, che hanno compiuto il loro dovere”. Nel romanzo toccherà al personaggio di Ambrogio fare la stessa considerazione: “il russo morto era lì a proclamare, nel suo tragico errore, che la sua parte lui l’aveva saputa fare, che non aveva ceduto”.
Dalle lettere emerge la limpida fede di Corti: racconta la sua fedeltà ai sacramenti e la decisione di devolvere il suo stipendio militare ai civili polacchi, di cui aveva potuto vedere le crude sofferenze. Affrontando la corrispondenza (che sarà pubblicata dalle Edizioni Ares) è impressionante notare il doppio volto della Campagna di Russia.
Prima che i russi sfondassero, Corti aveva corso pochi rischi. Aveva tempo per leggere, ascoltare la musica dal grammofono insieme agli altri ufficiali. Soprattutto, poteva immergersi nella natura tanto amata. Ecco gli appunti di una cavalcata: “Sono passato al galoppo lungo larghissimi costoni di collina, sono calato in ripide gole boscose, risalito dall’altra parte e piombato in un’immensa pianura che ho tagliato diagonalmente di gran carriera. È la vecchia terra dei cosacchi ch’io ho attraversato, in una sua minima parte su un cavallo cosacco, un po’ da cosacco”. Tutto questo accadeva prima del 19 dicembre. Quel giorno i russi attaccarono. Da lì in poi sarebbe stato solo l’inferno.