Un vero intellettuale sa sempre cosa dire. E quando non lo sa, sa cogliere che cosa sia giusto dire, cosa è saggio, ciò che la compagnia di giro si aspetta che dica. È una dinamica naturale, si lega a quella consistenza di sé che spesso noi uomini cerchiamo nel lavoro e che — per chi come lavoro crede di dover dire sempre la cosa giusta originale illuminante — assume più facilmente che altrove una drammaticità stonata, patinata da toni grotteschi.
Lo abbiamo visto, rivisto una volta di più, nella vicenda dell’attentato alla sede di Charlie Hebdo, di fronte al quale si è levato immediato un coro realmente popolare espressivo di un risentimento, di un senso di ingiustizia che posano nella natura più profonda di ogni uomo: io ho diritto di essere e tu — chiunque sia tu e qualunque cosa io faccia — non puoi distruggermi, non puoi odiarmi per il fatto che io sono. Questo sentimento popolare, tuttavia, si è immediatamente cristallizzato, banalizzato in un noioso, e capzioso, dibattito sulla libertà di espressione e sull’oscurantismo delle idee, come sempre slegando il concetto di libertà da quello di responsabilità e perciò falsificando tanto il concetto, quanto la sana reazione istintiva che aveva attraversato tutto il mondo occidentale.
Quel che nessuno infatti — salvo papa Francesco — mi sembra abbia colto è che anche nell’espressione di sé c’è un’armonia, una pace cui istintivamente aneliamo e che nel mito della libertà di parola a tutti i costi viene sistematicamente stuprata, in nome di un presunto predominio della “materia” sulle “idee”. Eppure, lo cantava Battisti: «nel mio cuor, nell’anima/ c’è un prato verde che mai,/ nessuno ha mai calpestato, nessuno». E aggiungeva «se tu vorrai conoscerlo/ cammina piano perché/ nel mio silenzio/ anche un sorriso può fare rumore». Le idee sono solide, i sentimenti sono solidi e solo un finto materialismo che non sa né dove inizia né dove finisce la materia può pensare il contrario.
La cosa interessante, tuttavia, è che davvero la realtà permette, anzi obbliga sempre a un paragone con sé e con i propri moti, con i propri pregiudizi, e che non siamo obbligati a lasciare noi e il nostro mondo circoscritti nell’idea giusta. C’è un episodio della storia letteraria italiana che ce lo mostra chiaramente, offrendoci il percorso di un intellettuale vero, fatto di carne e pensiero, di sangue e idee, dall’idea à la page a un interrogativo su di sé.
È la tarda primavera del 1806 e nel salotto di Isabella Teotochi Albrizzi arrivano gli echi della prossima estensione all’Italia del bonapartista editto di Saint-Cloud, con il quale si prevedeva, tra l’altro, l’uniformazione dei monumenti funebri e il divieto di istituire nuove sepolture entro le mura della città. Ippolito Pindemonte, amico di Foscolo e come lui frequentatore del salotto della dama, ne è colpito negativamente: in quel tempo il tema sepolcrale è molto di moda in tutta l’Europa pre-romantica, ed egli stesso sta componendo un poemetto intitolato I cimiteri.
L’amico Foscolo, invece, lui che è un uomo veramente moderno, impegnato in politica, ardito, lui coglie o pensa di cogliere veramente l’essenza del problema e — come scriverà egli stesso pochi mesi più tardi — si atteggia a «filosofo indifferente»: tutti moriremo, tutti diverremo polvere, chi se ne importa se e dove verremo sepolti? È una risposta moderna, alla moda, di uno che dice carne alla carne e fola alle fole. Eppure… L’editto di Saint-Cloud arriva realmente in Italia e Foscolo, che non si accontenta di specchiarsi nella sua ragione, ma ne è in fondo servo nobile e leale, si interroga, si interroga per intero, senza slacciare quello strumento finissimo che è l’intelletto avuto in dono da quegli altri strumenti acuti e accordati sul mondo che sono le sue fibre.
Si accorge così di non essere d’accordo con se stesso, anzi. Rilegge la propria esperienza, rivede il bene che cose apparentemente inerti come un monumento funebre (li chiama più volte «sassi») hanno fatto in lui e possono fare al mondo, legando i morti ai vivi in una «celeste […]/ Corrispondenza d’amorosi sensi» (Dei sepolcri, 29-30). Si pente, insomma, cambia idea, segue la ragione invece di bloccarla: e così, da «filosofo indifferente» si trova non solo a scrivere un carme intitolato Dei sepolcri, ma addirittura a «fare la corte all’opinione, al cuore ed allo stile di Ippolito» (Lettera 391, A Isabella Teotochi Albrizzi, 24 novembre 1806), segnando un passo nuovo della propria conversione intellettuale e lasciando a noi una pietra miliare nella storia del pensiero e del sentimento umano.
Un punto di evidenza della materialità delle idee, della loro efficacia e importanza nel cammino comune degli uomini e della necessità, perciò, di camminare piano nelle idee degli altri, perché spesso «anche un sorriso può fare rumore» e nessuno merita di essere deriso per ciò che di più intimo ha, per ciò che lo fa vivere.
Et alors oui, alors je suis Charlie.