Alla fine è andata come doveva, e ora si sa con certezza che la figura di Oscar Romero presto sarà innalzata alla soglia degli altari. Lo farà, tra l’altro, attraverso il cammino canonicamente più breve, più diretto, ovvero quello del riconoscimento del suo martirio. Una procedura che non richiede l’attesa di quel miracolo rivelatorio del divino riconoscimento di virtù esemplari che diverse altre autorevoli figure in passato — e pure nel presente — ha rallentato o addirittura fermato nel loro processo di beatificazione e canonizzazione. 



Papa Francesco, autorizzando la promulgazione del decreto che afferma il martirio dell’arcivescovo di San Salvador, perché — questa l’espressione tecnica della Congregazione per le Cause dei Santi — «ucciso in odio alla fede», ha così compiuto indubbiamente uno dei suoi ormai tanti passaggi “politici”, sebbene in esso sia veramente difficile immaginare una qualsivoglia “forzatura”: storicamente lo reclamava, innanzitutto, quell’unico colpo alla giugulare che il sicario inviato dall’Alianza Republicana Nacionalista gli inferse il 24 marzo 1980 durante l’elevazione sull’altare, dopo aver egli pronunciato l’ultima omelia contro il governo salvadoregno, reo nelle sue parole di utilizzare con somma crudeltà bambini indifesi e innocenti per “mappare” i campi minati nel paese martoriato dalla guerra civile.  



Siccome già sulle pagine del sussidiario sono stato più volte sollecitato a portare considerazioni sulla figura di Romero, credo sia opportuno ora — in conclusione della lunga e complicata vicenda dell’avvio agli altari — completare quelle riflessioni proprio sulla scorta di questo passaggio “politico” appena adottato dal pontefice latinoamericano. Un passaggio che mi pare stia in gran parte nella sottolineatura che l’attenzione per i poveri che la Chiesa deve sempre manifestare — basti pensare al Vaticano II — e che parimenti la società civile dovrebbe avere, soprattutto in un’epoca di grave crisi economica e accrescimento vertiginoso delle disparità sociali come la presente, non va sposata in nessun caso con la violenza e lo spirito di sopraffazione contro gli individui e i popoli. 



Non fu davvero quella la “rivoluzione” indicata al suo popolo da Romero, quella del “fine che giustifica i mezzi” che a livello socio-ecclesiale in America Latina si poté tradurre nella teologia della liberazione (come giustamente sottolineato su Repubblica da Marco Ansaldo, e da Stefania Falasca nella sua intervista per Avvenire al postulatore della causa, Mons. Paglia — peraltro tutti interventi in linea con quanto in passato ho modestamente asserito su questa testata). Il cambiamento allora invocato da Romero è invece quello della giustizia sociale, sì della denuncia dei soprusi e delle prepotenze, ma secondo l’ottica dell’urgenza morale, dell’appello alla sensibilità degli uomini e delle istituzioni, non della guerra. 

Come non vedere allora nella tempestività di questa scelta simbolica anche un richiamo sugli errori di chi oggi, strumentalmente sulla scorta di un’ipocrita bandiera religiosa sventolata dal fondamentalismo, procura morte e terrore nelle zone mediorientali — e anche recentemente lo importa ad Ovest —, sporcando con l’odio culturale (l’antioccidentalismo) anche le giuste istanze di giustizia sociale di quelle popolazioni.

Il che non significa giustificare le politiche, dirette e indirette, di sfruttamento in continuità colonialistica agite da molti paesi europei e dagli Usa su quelle terre, e il richiamo di Francesco allo “stile” di Romero dovrebbe far pensare anche tanta diplomazia internazionale, e soprattutto quella quasi inesistente europea, a riorientarsi verso un modello di sussidiarietà globale che porti ad una riduzione degli enormi divari economici oggi presenti nel mondo globalizzato.

E infine, una piccola e più modesta considerazione di carattere storico-ecclesiastico: non si dimentichi qui come, dopo le passate prudenze, e anche distanze, manifestate dai pontefici (Paolo VI e, in parte, San Giovanni Paolo II, il quale però dirà poi che «Il servizio sacerdotale della Chiesa di Oscar Romero ha avuto il sigillo immolando la sua vita, mentre offriva la vittima eucaristica»), chi contribuì per primo a sbloccare l’iter di beatificazione dell’arcivescovo salvadoregno fu proprio papa Ratzinger — come attesta una recente testimonianza dell’arcivescovo ausiliare di San Salvador Gregorio Rosa Chávez —, a riprova di quanta maggiore continuità esista tra i modelli pastorali dei due ultimi pontefici (pur nell’innegabile differenza di stili) rispetto a forzate letture pseudopolitiche su presunti “riformismi” e “controriformismi” papali. 

Come poeticamente espresso da padre David Maria Turoldo, Romero resta il simbolo di un impegno pacifico per i poveri, ma lontano dal pauperismo violento della teologia della liberazione: «Ucciso perché fatto popolo: / ucciso perché facevi / cascare le braccia / ai poveri armati, / più poveri degli stessi uccisi: / per questo ancora e sempre ucciso».