Se — come afferma Milan Kundera — “il romanzo è un’indagine sull’enigma dell’io, una meditazione sull’esistenza”, il capolavoro manzoniano cerca di scandagliare l’abisso dell’esistenza e portare alla luce “quel guazzabuglio del cuore umano”, come si legge nella storia della Monaca di Monza. In questo senso, nel sistema dei personaggi dei Promessi Sposi appare, dietro il testo, una trama molto interessante che fa emergere nitidamente i caratteri più radicali dell’esistenza personale; la paternità di Fra Cristoforo è sicuramente il suo tratto distintivo fino a determinare la forza d’animo e di giudizio di Lucia (così spesso “maltrattata” dalla critica); e la sua energia (certa ed umile) può sfidare l’arroganza di Don Rodrigo tanto pieno di se stesso e, perciò, tanto pauroso verso la realtà che non può dominare, quella del giudizio e della morte. La sua persona, da un certo punto del romanzo, seguirà, in obbedienza al Padre provinciale, altri cammini per tornare a offrirsi, consumato dalla carità, per i malati di peste nel Lazzaretto a Milano e, così, permettere l’atto più alto per l’uomo, il perdono che Renzo rivolgerà a un essere finito, Don Rodrigo morente e quasi folle. 



Quelle linee di forza hanno anche valore nella loro negazione, cioè nella reticenza o sospensione dall’incontro: che alcuni personaggi, per tutta l’opera, non si incrocino mai, in un microcosmo spaziale e temporale piuttosto circoscritto e ben delimitato, è molto interessante. 

Una figura che non s’incontrerà per tutto il romanzo con Fra Cristoforo è Don Abbondio; la sua titubanza, quel venir meno alla sua missione di sacerdote, all’obbedienza che deve al suo Vescovo, quella meschinità, meglio forse dire mediocrità, nel vivere la sua vocazione non tolgono ai nostri occhi di lettori la simpatia che l’autore gli porta. Fra Cristoforo è la forza della vocazione nella sua radicalità, il povero curato è ognuno di noi, se lasciato a se stesso, “risucchiato” dalle proprie misure. Manzoni sembra spesso indulgente col curato, ma, il più delle volte, ne è severo giudice.  



Un’altra figura, anch’essa storicamente documentata come quella del Padre, non incontrerà mai Fra   Cristoforo: la Monaca di Monza, suor Gertrude. Due interi capitoli ne tratteggiano la storia, avendone spogliato i dettagli di una vicenda torbida e delittuosa (come attestano i documenti processuali del suo tempo) che nella primitiva stesura (Fermo e Lucia, del 1821-23) occupava ben nove capitoli, gran parte, quindi, del secondo tomo.  

Lo studio di questo protoromanzo, in realtà un romanzo a se stante, rivela una diversa concezione della storia e dell’esperienza umana, una visione più cupa delle azioni individuali, per cui quel quadro fosco non è illuminato da nessuna speranza. Solo una lontana eco aristotelica pare giustificare la messa in scena della degradazione della Monaca; il fatto che il racconto “muova un impeto di pietà e di orrore” o, come afferma nel capitolo VI, “la cognizione del male, quando ne produce l’orrore, sia non solo innocua, ma utile”. 



Un così ampio spazio, nell’economia della storia  dei due protagonisti, permette di dare alle vicende umane la loro profondità. Agli occhi di Manzoni non esiste condizione, vicenda quotidiana, che non sia “il cozzo del Comico col Tragico”; “Tocca — diceva Socrate ad Aristofane — ad un medesimo uomo saper creare una commedia e una tragedia, e … chi è poeta tragico è anche poeta comico”.  

Per Manzoni la storia degli uomini è, dunque, attraversata da tale dialettica, non come presupposto logico (quasi fosse una versione ingenua dell’idealismo hegeliano), bensì come tessuto degli accadimenti e dei casi che riguardano gli individui: se la storia è mistero, se l’uomo è mistero, il  suo volto vero è dato dalla lotta per il riconoscimento, dall’accettare la sfida che il limite e il dolore, che il male e la morte, la sfida che il finito porta alla libertà dell’uomo stesso. Qui sta, perciò,  secondo l’autore, la tragedia della Monaca e la sua figura tragica. Se fin dalla descrizione ne mette in risalto potentemente gli aspetti contraddittorii, il bianco del volto e il nero degli occhi, che definiscono altresì il velo e l’abito, ma che sembrano contrapporre il pallore della morte e  l’ambiguità dell’animo, Manzoni svolge sullo sfondo della vicenda storica e di costume della società seicentesca una profonda meditazione sulla presenza del male nella storia degli uomini. L’antica domanda agostiniana, Unde malum?, Da dove proviene il male?, ritorna potente in queste pagine.

Come afferma Salvatore Battaglia, Per uno scrittore come il Manzoni, che non poteva concepire il mondo degli uomini se non edificato sul principio della responsabilità, anche l’esistenza abietta di Gertrude trovava le ragioni più reali, e perciò più liricamente personali, all’interno della coscienza”. 

Questo scavo della coscienza mette in luce la tragedia del personaggio, in cui Manzoni salva sempre lo spazio della libertà individuale e la possibilità di scelta (la necessità di una sua decisione che le si affacciava nella mente, scrive l’autore) che nelle diverse circostanze si apre; gli aggettivi risaltano, in effetti, di Gertrude l’essere “povera, infelice” e solo nella sospensione reticente della storia, davanti alle profferte di Egidio, l’autore introduce l’aggettivo più tragico, “la sventurata  rispose”, per cui la giovane diventa totalmente artefice del suo destino.

In tal modo la Monaca rifiuta quella possibilità misteriosa che caratterizza la religione cristiana, “è una strada così fatta che, da qualunque laberinto, da qualunque precipizio, l’uomo capiti ad essa…può, da allora in poi, camminare con sicurezza e di buona voglia e arrivare lietamente a un lieto fine…”.

Cosa abbia giocato nel suo animo, lo scrittore lo sviluppa e approfondisce sapientemente nel corso del racconto, senza mai ridurre il dramma della libertà, ma anzi evidenziandone una radice quel venir meno del rapporto con la realtà concreta e vivere ne “la fantasia”, “l’immaginazione sfrenata”, il “vagare in un mondo ideale”, popolato di fantasmi che non acquistano forma reale; questo costruire “castelli in aria” è uno degli aspetti fondamentali che accomuna una lunga serie di personaggi femminili, dalla Francesca da Rimini di Dante fino ad Emma Bovary o le eroine moderne di tanti romanzi, la più nobile delle quali è Anna Karenina. 

Per molte di esse valgono le parole di Flaubert: “in fondo al cuore aspettava che accadesse qualcosa… così ogni mattina destandosi sperava per quel giorno … e l’avvenire era un corridoio nero, nero con in fondo una porta sprangata…”.

Manzoni, fuori dal romanzo, sa che anche la figura storica di Suor Virginia de Leyva trovò, proprio nell’abbraccio accogliente del Cardinale Federico Borromeo, una misericordia più grande, una “sapienza, che, il cielo ne sia lodato, non è la nostra”.