Amerai il prossimo tuo come te stesso. Quando Gesù di Nazareth fece questa affermazione che fu ripresa da tutti i Vangeli sinottici, forse nessuno degli uomini lì presenti poteva aver chiaro che quell’affermazione così dolce e perentoria, Ama il prossimo tuo, avrebbe cambiato una parte significativa del mondo. Dialogare con il prossimo, gestire la sua complessità, la sua diversità, la sua spesso ostile inospitale presenza, è forse il tratto più distintivo della civiltà occidentale, il tratto che più la caratterizza, la informa, la determina. In mezzo a guerre, conflitti, sopraffazioni e fosse comuni che la civiltà rinata dal fuoco del cristianesimo ha prodotto o subito, c’è sempre stato questo magnete in sottofondo, questa spinta a gestire la complessità del prossimo, che ha determinato leggi, codici, spazi, architetture. 



Di fronte dunque a coloro che oggi uccidono chi offende Maometto e abbattono tutto ciò che lo insulta, di fronte a questi diversificati gruppi estremisti islamici che in 18-20 paesi nel mondo, oltre ad assassinare, distruggono sistematicamente ogni testimonianza storico-artistica che insulta il Profeta, che cosa deve fare quella civiltà che ha, al fondo di se stessa, quel magnete dell’amore per il prossimo? Il prossimo non è colui che ti è vicino, che ti assomiglia, che ti corrisponde, che condivide il tuo pensare: il prossimo, verso cui Gesù diceva di farsi amore, è colui che viene da lontano e non ha le sembianze della vicinanza, della contiguità, al contrario ha le fattezze dell’estraneo, dell’ostile, del mostruoso. 



Cosa significa amare il prossimo, se il prossimo ti uccide?

Dunque che cosa fare se Boko Haram incendia le chiese cristiane delle città di Niamey, Zinder, Maradi, Gourè, tra Niger e Nigeria? Che cosa fare se nel Mali i fondamentalisti di Ansar Dine legati ad Al Qaeda, hanno cancellato o pesantemente colpito, tra le altre cose, 7 dei 16 mausolei dei santi musulmani a Timbuctu? Che cosa fare se, ormai quotidianamente sappiamo che l’Isis in Iraq, Siria e Libia, sistematicamente abbatte ogni testimonianza di qualunque civiltà presente? Ripetute distruzioni nelle città assire di Ninive, Khorsabad e Assur, nelle centinaia di siti mesopotamici. E che cosa fare se le distruzioni hanno imperversato anche in Siria? Sciacallati quasi 300 siti archeologici tra Aleppo e Palmira. E che cosa fare se questi abbattimenti proseguono e si accrescono in altri paesi, come l’Indonesia, il Pakistan, l’Afghanistan?



Al di là delle proposte pratiche a livello politico e militare (su tutte, occorre dotare i contingenti militari presenti nelle zone di conflitto di nuclei operativi chiaramente impegnati nella preservazione del patrimonio culturale), al di là di quel che si può fare a livello stringentemente operativo, occorre chiedersi: cosa possiamo fare come civiltà? 

Diceva don Luigi Giussani che l’ambito proprio della libertà è la convinzione. Solo avendo nitido nel tuo cuore che cosa hai caro, che cosa senti così caro in te da esserne convinto, tu riuscirai a comprendere il valore della libertà. La libertà è riconoscere le tue dipendenze, ciò da cui dipendi, ciò che ti è così caro da sentirtene dipendente. 

Dunque di fronte alle distruzioni islamiche, che cosa possiamo fare come civiltà? Appunto, anzitutto riconoscere ciò che abbiamo caro, ciò che sostanzia la nostra libertà. Se ci dobbiamo avvicinare al prossimo, e amarlo, e plasmarlo (e possibilmente senza farsi ammazzare), possiamo approssimarci alla sua diversità, alla sua radicale lontananza, anzitutto riconoscendo ciò che forma la nostra civiltà. 

Che cosa forma la nostra civiltà? Per Micromega la libertà di espressione è il principio irrinunciabile e fondativo della nostra civiltà: il diritto all’empietà, alla blasfemia, alla profanazione, all’offesa è il fulcro distintivo della nostra civiltà. Ma è davvero il diritto alla blasfemia, il diritto a irridere, ciò che abbiamo di così caro che non possiamo perdere? Di fronte a chi distrugge un tempio buddista, una moschea o una chiesa cristiana, o un sito neolitico, o un sito archeologico, davvero la nostra civiltà deve saper contrapporre, come suo principale elemento costitutivo, il diritto alla blasfemia? 

Se la nostra civiltà rivendicasse la libertà dell’offesa come suo tratto distintivo, saremmo davvero tanto distanti da coloro che, per offesa, distruggono un tempio romano o abbattono una statua assira o mettono dinamite tra i gradini di un teatro greco? Si tratterebbe soltanto di una differenza d’intensità nella profanazione, ma sempre gesto di profanazione sarebbe. Charlie Hebdo profana Maometto raffigurandolo; i Fratelli musulmani di Alba libica o l’Isis profanano i siti archeologici romani con le ruspe e le mazze. Sebbene la rivista satirica parigina non ammazzasse nessuno, mentre i terroristi hanno familiarità con i coltelli alla gola, è ben chiaro però che non è la libertà di profanazione, di insulto, ciò che ci caratterizza. 

Se abbiamo un’unicità che ci sostanzia, essa è invece proprio la tradizione che da Gesù, dal porgere l’altra guancia, si innalza in San Francesco, quando nel suo Cantico dice che ciò che differenzia l’uomo dalle bestie è che egli perdona, che al male non reagisce con il male, ma con il perdono. Tale è la nostra civiltà. 

Questo vuol dire che non si debba reagire se veniamo sgozzati? Che dobbiamo allargare le mani se l’Isis vuole piantare la sua bandiera sul Colosseo? Tutt’altro. Il perdono non è buonismo né inermità. Il perdono significa discernere. Significa che se loro ingabbiano i nostri soldati e li bruciano vivi in un rogo, noi non reagiamo con l’irragionevolezza di chiudere le moschee, di non costruirle nei nostri territori, di dire ai musulmani che ritornino a casa loro. 

Né reagiamo servilmente togliendo i crocifissi dalle scuole o dai tribunali, o togliendo il presepe dalle piazze. Il perdono non significa né arroganza né servilismo. Il perdono significa dotarsi di leggi, di programmi scolastici, di autorità, di buon senso che rivendicando le nostre tradizioni non ci pongano arresi verso di loro né ostili verso chi non ha nessun rapporto con i terroristi se non il fatto di essere fedeli a Maometto. 

Il perdono significa sostenere, con operazioni di peacekeeping e enforcing, quei governi tra Medio Oriente, Africa e Asia, che militarmente dimostrano di combattere i gruppi più integralisti, come l’Egitto del presidente Al Sisi e la Giordania del re Abd Allah II stanno facendo con l’Isis. 

Amare il prossimo significa disarmare il prossimo che vuole ucciderti.