“Il nemico mi perseguita, calpesta a terra la mia vita; mi ha relegato nelle tenebre, come i morti da gran tempo. In me langue il mio spirito, si agghiaccia il mio cuore…”: parole sferzanti come quelle del salmo 142 fotografano una sensazione diffusa nel nostro opulento Occidente.
Le incertezze di una crisi che stenta a evolvere in senso positivo hanno minato l’ottimismo del progresso senza freni. Riemergono da ogni parte tensioni, conflitti e irrazionalità violente che si insinuano nelle pieghe della vita più quotidiana, mettendo uno contro l’altro individui senza etica, gruppi e schieramenti separati da interessi contrapposti. Alle porte delle cittadelle del benessere e dei consumi, soffiano venti di guerra che degenerano nello scompiglio di una brutalità primitiva, lasciandoci sgomenti. E la minaccia tenebrosa della spietatezza omicida, impiegata a scopo di potere, dai teatri neanche troppo lontani degli scontri più duri ha in certi casi estremi la forza di rimbalzare fino alle case delle nostre città, sprigionandosi nei luoghi-simbolo della civiltà di cui andiamo fieri, all’ombra di una fede religiosa manipolata, sfigurata, ridotta a schema di dominio che non ammette distinguo né libertà.
In un mondo avviato a diventare sempre più globale, dove le identità molteplici sono sì destinate a incrociarsi nell’intreccio di una storia comune, ma nello stesso tempo covano vecchi rancori da vendicare, istinti di sopraffazione mai domati, pigrizie e chiusure che portano a innalzare barriere e rallentano le spinte a un inevitabile meticciato, anche il polo euro-americano del sistema sociale planetario fatica a garantire l’integrità sicura del suo spazio, unita alla coscienza orgogliosa del suo primato di conquiste materiali. Ci si sente spesso esposti a una oscura minaccia, sotto scacco. Il senso di accerchiamento porta a esasperare la distanza dagli interlocutori con cui non possiamo evitare di interagire. La denuncia degli errori altrui, bollati come marchio infamante di una umanità inferiore, malata e da tenere a freno, finisce con il far perdere la lucidità di un esame di coscienza rivolto anche a smascherare la propria parte di colpa. La realtà si spacca, così, in due recinti separati da un muro di netta divisione: “noi” e “loro”. Da una parte stanno i “buoni”, quelli che si muovono nella corrente della storia che avanza verso il futuro della speranza; dall’altra le forze che vogliono trascinarci verso il basso, zavorra appesantita dall’esaltazione immobile del passato, che rinnega il luccichio suadente della modernità e riafferma contro di essa la superiorità di una Legge primordiale, calata direttamente dalla mente divina sul teatro dell’universo umano.
Nella logica della frattura e dello scontro di civiltà il posto assegnato all’elemento religioso diventa cruciale. Dove si colloca l’anima profonda dell’Occidente? Il nesso fondamentale può facilmente essere posto con la radice cristiana, per quanto vasto e senza remore si giudichi il divorzio dalle prospettive che essa aveva aperto nella coscienza sociale e nelle pratiche di vita della larga maggioranza dei suoi attuali abitanti, cominciando dalle istituzioni che li governano.
A questa tradizione religiosa tipicamente “occidentale”, a lungo custodita, intensamente metabolizzata, rielaborata e fatta fiorire, sarebbero da ricondurre le ragioni ultime delle conquiste accumulate nella corsa verso il soggiogamento dei cinque continenti. Da qui ha tratto origine — si dice — l’impianto di un “ecumenico” destino di supremazia terrestre. Se è stato così in passato, anche ora l’arma migliore per puntellare un primato su molti fronti in pericolo, diventato scettico e autodistruttivo, non potrebbe che essere cercata nella difesa della fede nel monoteismo cristiano: una fede allenata a dialogare con il cielo, ma amica della realtà dell’uomo e incarnata nel tessuto più concreto della sua alterna vicenda sul filo del tempo.
Una prospettiva come quella che ho brutalmente schematizzato viene oggi accreditata anche al di fuori del perimetro confessionale di ciò che resta della cristianità degli ultimi due millenni. Se ne fanno araldi pure molti di coloro che esaltano da laici post-illuministi il successo indiscriminato dell’Occidente liberale e filocapitalista, ponendolo al vertice della piramide attraversata dai rapporti di forza dell’incontro/scontro fra i popoli, le civiltà e gli stati. Le gradazioni di toni sono a loro volta sfumate: dalle forme più politicamente strumentali come quelle teocon, degli “atei devoti” o di chi vuole rispondere alle aberrazioni della violenza terroristica di matrice islamica con una pulizia etnico-religiosa di segno capovolto, si può arrivare fino alle ricostruzioni più distese e scientificamente argomentate divulgate, negli anni recenti, dal sociologo americano Rodney Stark. Grande favore ha incontrato, in particolare, il suo ultimo saggio tradotto in italiano: La vittoria dell’Occidente (Lindau, 2014).
Che ci sia qualcosa di storicamente attendibile in questo genere di atteggiamenti culturali mi sembra fuori discussione. È indubbio — anche se tanti continuano a voler farci credere il contrario — che l’Occidente esploso con la sua potenza assimilatrice sulle due sponde dell’Atlantico non sarebbe mai diventato quello che è se non avesse conosciuto l’innesto del germe religioso cristiano. Fin dall’inizio erano entrati nel gioco, è vero, tanti altri fattori diversi (e su questo Stark credo si mantenga troppo evasivo). Ma senza il plurisecolare corpo a corpo tra la fede cristiana vissuta, la cultura e l’insieme della società quello che oggi chiamiamo “Occidente” non avrebbe saputo generare dal suo grembo le risorse necessarie per trasformarsi nel laboratorio di una realtà collettiva lanciata verso un avanzamento continuo, all’insegna di una espansione prima mai vista dei supporti fisici della vita umana e delle sue strumentazioni tecnico-pratiche: non di sicuro un giardino paradisiaco, ma certamente un mondo meno povero e limitato di quello conosciuto in altre epoche arretrate e da altri contesti di civiltà rimasti più statici, scivolati in una parabola di declino.
Tuttavia, i conti non tornano del tutto. La tesi della simbiosi genetica, amplificata nella identificazione sostanziale tra l’Occidente e il cristianesimo, appiattisce una dialettica molto più aperta e complessa. L’Occidente, come lo intendiamo ora, è piuttosto un ibrido: sorto molto più tardi rispetto all’affermazione storica della religione cristiana, ha incorporato varie altre tradizioni preesistenti, inglobando gli apporti derivati dai contatti con ciò che stava fuori dai suoi confini o comunque arrivava a introdurre nuove sequenze nel Dna di un organismo composito. I codici di programmazione li ha prelevati da Roma, Atene e Gerusalemme. Materiali e modelli di base riciclavano eredità ancora più antiche che le civiltà del mondo classico avevano riassorbito nei loro quadri. Poi sono venuti la diaspora ebraica, le ondate a ripetizione dell’ingente afflusso barbaro-germanico, l’instabile confronto con la pressione del mondo arabo e musulmano, che ha bloccato la cristianità nell’universo liquido del Mediterraneo, infine le svolte di una progressiva apertura al mondo moderno che la fede in Cristo non ha mai ingenuamente avallato in ogni sua piega, di cui ha denunciato i rischi di deviazione e le contraddizioni interne, che nei momenti di più dura polemica ha anche combattuto con virile asprezza, subendone ritorsioni e amputazioni dolorose. Le soppressioni sette-ottocentesche, il regime autoritario del lavoro di fabbrica, l’idolo del profitto, l’imperialismo coloniale, Hiroshima e l’olocausto dei lager non sono esattamente celebrazioni esaltanti dell’alleanza tra religione e sviluppo integrale dell’esperienza umana.
Ancora più decisamente si deve contestare l’idea che il cristianesimo sia una sorta di fratello gemello dell’Occidente. È un dato incontrovertibile che la Buona Novella è venuta, invece, da ben altri lidi. La sua voce si è destata nel contesto ellenistico-semitico del Mediterraneo orientale. Quindi si è calata nel linguaggio dell’alta cultura dominante della galassia imperiale romana così come negli usi sociali e rituali delle varie entità che la costituivano, partendo da quella di radice giudaica. Solo successivamente si è “occidentalizzata”. Il cristianesimo antico non è penetrato solo nelle terre che in seguito avrebbero dato origine al mosaico europeo, ma si è disseminato su molte linee dell’intero spazio afro-asiatico. È diventato copto, etiope, siriaco-armeno, georgiano, mesopotamico, indo-persiano. La sua metamorfosi latina, gravitante intorno al vescovo di Roma, non impedì che nel settore rimasto intatto dell’Impero fiorisse, secondo stili sempre più differenziati, un altro cristianesimo “ortodosso” che non possiamo certo giudicare “inferiore”, diffusosi per vie autonome in tutta l’area balcanico-slava, trapiantato più tardi nella terza Roma della Russia via via cristianizzata: di nuovo, non siamo esattamente al cuore dell’Occidente.
Ancora in piena età moderna, quando l’Occidente latino accelerò la sua marcia verso il trionfo politico-economico-intellettuale, la fede cristiana si trovò lanciata in un irraggiamento missionario che la travasò in ambienti e culture fino ad allora rimasti pressoché completamente estranei.
Cristo mise gli occhi a mandorla, i personaggi delle storie evangeliche cambiarono il colore della loro pelle e le lodi di Dio cominciarono a essere cantate anche in lingua guaraní, in irochese, in tagalog. Si creò un pluralismo ancora più cosmopolita di catechismi, liturgie, stili educativi e ideali di santità, una sinfonia eterogenea di mille soggetti diversi, ma sempre in dialogo tra loro. Tutto ciò può essere stato solo il frutto della forza civilizzatrice dei nuovi Padroni a senso unico del mondo?