Il tempo della storia, il flusso delle notizie. La lunga durata degli eventi sociali ed economici, l’immediatezza della comunicazione nell’era di Internet. A volte sembra che l’informazione abbia una marcia in più rispetto alla realtà, tanto essa corre per poi consumarsi in fretta. La storia, invece, procede a piccoli passi, rivelando, col passare degli anni, novità sorprendenti. Eppure la notizia non è solo apparenza, racconto della superficie dei fatti. Essa ha una profondità che, se indagata, costringe a rimodulare i tempi della stessa informazione.



Nel 1954 Ennio Flaiano scrisse un racconto che possiamo assumere come l’emblema di un sistema dell’informazione che “droga” e consuma gli avvenimenti in un breve periodo. Flaiano immagina che il 12 ottobre del 1954 un marziano sia sbarcato con la sua aeronave nel prato del galoppatoio di Villa Borghese a Roma. L’evento è accaduto improvviso e imprevisto: “tutta la popolazione della periferia — scrive Flaiano — s’è riversata al centro della città […] la gioia, la curiosità è mista in tutti ad una speranza […] che tutto cambierà”.



Secondo un copione valido ancora oggi, l’evento conquista subito titoloni di prima pagina. Il giorno successivo il marziano viene ricevuto dal presidente della Repubblica e tutti lo vogliono conoscere e si vogliono fare la foto con lui. Col passare dei giorni, tuttavia, la situazione si normalizza, e il marziano non fa più notizia. E, alla fine, diventa una macchietta, un personaggio che i giovinastri si divertono a prendere in giro, tanto che egli vorrebbe ritornarsene da dove è venuto, se solo gli albergatori acconsentissero a dichiarare concluso il pignoramento dell’aeronave.



Nello stesso anno 1954, sempre a ottobre, accade un altro episodio — stavolta reale — che occuperà le prime pagine dei quotidiani locali per poi allargarsi alla stampa nazionale. Il 6 ottobre 1954, dunque, alla stazione dei carabinieri di Avola si presenta la signora Cristina Giannone per denunciare la scomparsa del marito, Paolo Gallo, di anni 47. Paolo Gallo era da tempo in lite col fratello Salvatore, di due anni più giovane di lui, per la proprietà e la coltivazione di un podere di famiglia. Lo scomparso non si trova e i carabinieri ipotizzano che egli sia stato ucciso dal fratello, che ne avrebbe occultato il cadavere. La prova del delitto è nel sangue che i carabinieri rinvengono nel podere conteso, e che lascia presumere una lite finita male. La notizia trova il suo compimento formale il 21 dicembre del 1956, quando la Corte d’Assise di Catania condanna Salvatore Gallo all’ergastolo.

Quando tutto sembra concluso e l’attenzione mediatica è scemata, un cronista del quotidiano La Sicilia — Enzo Asciolla — si mette sulle tracce di Paolo Gallo, non essendo convinto della sua morte. Durante il processo, infatti, due testimoni hanno dichiarato di aver visto “don Paolo” vagare nei campi, ma i giudici non li hanno presi sul serio. 

Il cronista segue indizi alla ricerca di una verità dei fatti, che non necessariamente coincida con la verità giudiziaria. “Seppi da un barbone — racconterà poi Asciolla — che c’era un uomo che si spostava da un punto all’altro come un folletto in cerca di lavoro, faceva spesso il garzone di animali, li conduceva al pascolo e, se capitava, partecipava con capacità alla semina del grano o di altri cereali”. La curiosità e la perseveranza di Asciolla furono premiate. Alla fine egli trovò una maestrina che aveva avuto Paolo Gallo alunno in una scuola serale e che gli consegnò un tema da lui scritto. Era la prova regina per dimostrare che il “morto” era vivo. Grazie ai dati forniti da Asciolla, il 7 ottobre 1961 i carabinieri rintracciarono Paolo Gallo in un casolare di Ispica e il 12 ottobre di quello stesso anno l’ergastolano Salvatore Gallo fu liberato per non aver commesso il fatto.

Nel racconto di Ennio Flaiano la notizia del marziano a Roma nasce, cresce e si consuma nel giro di 25 giorni.

Nel caso del morto-vivo di Avola, la notizia si svolge, fra alterne vicende, in un arco temporale di 7 anni. E ciò accade, lo ripetiamo, perché un cronista non si ferma alle apparenze o alle verità pre-fabbricate: egli osserva la realtà, va oltre la superficie delle notizie, si avventura alla ricerca della verità dei fatti e li racconta da par suo.

Nell’era di Internet può sembrare anacronistico parlare di una discesa nel fondo della realtà, che richiede tempo, passione, attenzione ai dati del reale. Oggi non riusciamo a sopportare buchi di notizie di minuti. Abbiamo la frenesia di sapere subito, di avere una verità, qualunque essa sia, sempre a portata di mano.

La strage di Tunisi al museo del Bardo nel giorno di san Giuseppe rappresenta un altro esempio di quanto stiamo sostenendo: non solo per la frammentarietà e la lentezza con cui ci sono arrivate le informazioni, ma anche perché essa rimette in discussione il nostro modo di guardare alle Primavere arabe e ci costringe a voltarci indietro e a riscrivere una storia che avevamo frettolosamente archiviato.

Tra il mese di dicembre del 2010 e i primi mesi del 2011 si sono verificati in alcuni paesi arabo-musulmani rivolte popolari di stampo nuovo, che hanno cacciato senza usare violenza i dittatori per alcuni aspetti illuminati: Ben Alì in Tunisia, Mubarak in Egitto. Il fuoco della rivoluzione s’è poi sparso in altri Paesi come la Libia e la Siria, anche se qui le forme della lotta sono state ben diverse e gli esiti decisamente catastrofici. La novità della protesta popolare in Tunisia ed Egitto, fatta in nome della dignità e caratterizzata dall’uso dei new media, fece etichettare quel momento come la “Rivoluzione dei gelsomini” o la “Rivoluzione gentile”. Sembrava, come notò lo scrittore maghrebino Tahar Ben Jelloun, che dopo i fatti di Tunisia e di Egitto “più niente sarebbe stato come prima nel mondo arabo”.

Le abbiamo raccontate quelle rivoluzioni con dovizia di particolari, ma presto ci siamo stancati di seguirne gli sviluppi. Abbiamo abbassato i riflettori quando la rivoluzione in Siria si trasformava in guerra civile, o quando in Egitto dopo l’estromissione di Mubarak prendevano il potere prima i Fratelli musulmani (dando vita a una dittatura islamica) e poi l’esercito (realizzando una dittatura militare).

Di quelle rivoluzioni è rimasta in vita solo l’esperienza tunisina, che ha saputo creare una costituzione che accorda la libertà di coscienza e l’uguaglianza di diritto fra l’uomo e la donna. Ma la strage del museo del Bardo ci dimostra come la laicità tunisina sia più fragile di quanto potessimo pensare.

Così, a cinque anni dall’inizio delle Primavere, come ci suggerisce Domenico Quirico, dobbiamo prendere atto che “le zone che crediamo sicure, l’islam moderato su cui siamo pronti a giurare, la Tunisia l’Egitto l’Algeria il Marocco la Giordania hanno piedi d’argilla; la Bestia [del jihadismo] li rode con la voracità di termite e di colpo crollano, davanti ai nostri occhi stupefatti”.

Se scaviamo nel cuore delle notizie, l’apparenza perde consistenza e lascia spazio alla realtà. L’illusione della rivoluzione gentile che in poche settimane sembrava dover cambiare il corso della storia s’è trasformata nella paura dei tagliatori di teste dello stato islamico. Eppure la loro ferocia deve fare i conti anche col martirio dei 21 cristiani copti, sgozzati mentre pregavano anche per i loro boia. Occorre scavare nella profondità dell’animo umano per attingere la verità del reale. A questo livello poco ci aiuta la fretta dell’informazione internettiana. Ci serve un lavoro che sappia avere pazienza.