La mia conoscenza con Antonia Pozzi risale agli anni Settanta del secolo scorso, poi l’avevo dimenticata fino alla ricorrenza del centenario (2012). Dal vasto pubblico è conosciuta solo negli ultimi decenni, anche se già nel ’45 Montale aveva scritto un saggio su di lei.

Nata a Milano il 13 febbraio 1912 in una famiglia della alta borghesia milanese, nutre fin da piccola un grande affetto per la nonna materna. Da lei prende lo spirito libero e sognatore, l’amore per la campagna, le cose concrete della vita. Il padre, scoppiata la guerra, acquista un vecchia villa a Pasturo in Valsassina, il luogo della libertà, dei giochi, della scoperta della natura e in particolare della montagna.  



Alcune pagine di diario ci mostrano una sensibilità insolita per una ragazzina appena tredicenne. Il Natale del ’26 scrive: “Io ho vissuto questa vita intensamente, godendo quasi della mia stessa sofferenza, esultane per la gioia di poter vivere dentro di me, di sentirmi dentro, chiusa come in uno scrigno, un’anima, un’anima palpitante, ridente, nostalgica, appassionata”.



Una ragazza piena di interessi: la musica, i libri, le lingue, la montagna, la fotografia, i viaggi. Al liceo incontra il professore di latino e greco Antonio Maria Cervi. Un uomo di vasta e profonda cultura e desideroso di comunicare agli studenti il suo interesse educativo; tutta la classe è affascinata, Antonia si innamora del suo professore che, di carattere chiuso per la morte prematura di un fratello, ritrova con lei il sorriso e un sentimento finora sconosciuto. Il rapporto non è senza difficoltà: lui credente per tradizione, lei lontana dalla pratica cristiana, perché cresciuta in una famiglia indifferente al problema religioso.



La prima poesia è scritta a diciassette anni, altre di questi anni rivelano debiti ai Crepuscolari, a Corazzini, a Rilke, ma già sono “sue”; del maggio del ’29 è Ritorni, una delle prime dedicate a Cervi.Stamattina, in campagna, sono entrata,
dopo tutto l’inverno, nel mio studio.
C’era un odore quasi soffocante:
odor di muri vecchi; mi ha investito
come le melodie che ci risuscitano
in cuore i più nostalgici ricordi.
Sai: su quel divanetto ho tanto pianto
quando ho saputo che tu non tornavi.
Ed oggi, sulla porta, mi ha avvinghiato
la mia anima di allora; ho riassistito
in un istante a tutto il mio passato.
Mi sembrava di essere affacciata
a una terrazza stretta e di guardare,
sotto di me, un brulichio infinito,
affogato nel vuoto e nell’azzurro.
Una lieve vertigine mi ha colto
e sono uscita: fuori, sotto il portico,
c’era una rondine, che s’è spaventata
ed ha squittito tanto acutamente
che ne ho avuto uno stupido sobbalzo.

(Milano, 26 maggio 1929) 

Il loro legame resta sempre molto saldo anche quando il professore viene trasferito a Roma; ma quando Cervi si presenta al padre della ragazza per chiedere di sposarla, la risposta è negativa e durissima. Nel ’33 i due giovani decidono di interrompere il loro rapporto; un gruppo di poesie scritte in quei mesi grida tutto il dolore della rottura. Tra esse La vita sognata: 

Chi mi parla non sa 
che io ho vissuto un’altra vita – 
come chi dica 
una fiaba 
o una parabola santa.

Perché tu eri 
la purità mia, 
tu cui un’onda bianca 
di tristezza cadeva sul volto 
se ti chiamavo con labbra impure, 
tu cui lacrime dolci 
correvano nel profondo degli occhi 
se guardavamo in alto – 
e così ti parevo più bella. 

O velo 
tu – della mia giovinezza, 
mia veste chiara, 
verità svanita – 
o nodo 
lucente – di tutta una vita 
che fu sognata – forse – 

oh, per averti sognata, 
mia vita cara, 
benedico i giorni che restano – 
il ramo morto di tutti i giorni che restano, 
che servono
per piangere te.
(25 settembre 1933)Nel frattempo è iscritta all’Università statale di Milano, corso di filologia, dove insegna estetica il prof. Antonio Banfi; stringe amicizia con Vittorio Sereni, Enzo Paci, Remo Cantoni. È amica di Alberto Mondadori, Giancarlo Vigorelli, dei fratelli Paolo e Piero Treves. Il gruppo intorno a Banfi discute intorno al rapporto arte-vita, così denso in Tonio Kröger  e in altre opere di scrittori dell’epoca. Non solo poesia, anche “gli altri” sono vita per Antonia: si dedica agli sfrattati nella periferia sud di Milano. A quei luoghi, che saranno poi lo scenario della sua tragica fine, è dedicata una struggente poesia, Via dei Cinquecento:Pesano fra noi due 
troppe parole non dette 
e la fame non appagata, 
gli urli dei bimbi non placati, 
il petto delle mamme tisiche
e l’odore – 
odor di cenci, d’escrementi, di morti –
serpeggiante per tetri corridoi

sono una siepe che geme nel vento
fra me e te. 

Ma fuori, 
due grandi lumi fermi sotto stelle nebbiose 
dicono larghi sbocchi 
ed acqua 
che va alla campagna; 

e ogni lama di luce, ogni chiesa 
nera sul cielo, ogni passo 
di povere scarpe sfasciate 

porta per strade d’aria
religiosamente 
me a te. 
(27 febbraio 1938)
 

Negli ultimi anni della sua esistenza la Pozzi incontra il mondo della scuola e quello della società operaia. Insegna allo Schiaparelli di Milano e diventa amica di Dino Formaggio, uno studente lavoratore che vive in piazza Corvetto e si sta laureando con Banfi. Con lui e la macchina fotografica a tracolla si reca spesso nelle case dei poveri di quel quartiere, fino alla spianata del porto di mare. A Dino Formaggio lascerà la raccolta delle sue foto, molte con dediche: “Caro caro Dino, che tu almeno possa foggiare la tua vita come io sognavo che divenisse la mia: tutta nutrita dal di dentro e senza schiavitù”. Una mattina di dicembre del 1938 lascia la scuola prima della fine delle lezioni, parte in bicicletta verso la periferia; la trovano la mattina seguente tra i prati davanti all’abbazia di Chiaravalle; muore il giorno dopo, a ventisei anni. 

Antonia aveva progettato di scrivere un romanzo,  ne stende solo qualche pagina; la protagonista è la sua immagine:”Un bimbo di carne non le sarebbe nato, gli occhi splendidi di un uomo non l’avrebbero mai illuminata d’amore: ma nello sforzo di comporre parole, una maternità più vasta l’avrebbe ricompensata”.