Il testo che presentiamo è un’anticipazione dell’articolo in uscita in questi giorni sul numero 649 (Marzo 2015) di “Studi Cattolici”, mensile diretto da Cesare Cavalleri.

Nelle memorie di L.K. Cukovskij si racconta che l’Ach­matova, in risposta a un interlocutore che considerava classica la sua poesia, paragonandola a quella di Puškin, rispondeva definendosi nient’altro che un’autrice di «una manciata di strani versi». Le grandi poesie sono sempre una manciata (come è possibile misurare l’eredità di Orazio, Saffo, Tjutcev o di Baratashvili? O perfino di Blok, che per la lirica ha scritto tantissimo?), e sono sempre singolari. Ciò che definiamo classico possiede proprio questa caratteristica: «il fuoco sotto uno strato di ghiaccio», per usare le parole di Goethe. Solo un lettore superficiale e senza il senso della poesia può non avvertirlo. Si parla di non classico, di imitazione, di accademismo quando questo fuoco non si avverte. Sulla singolarità classica (in altre parole sulla novità o sulla freschezza) l’Achmatova si esprime in modo complesso, poiché non resta in superficie. Non usa metafore eccentriche, similitudini «accese», innovazioni metriche, inaudite forme di composizione. Per i suoi contemporanei, durante i primi del ‘900, gli anni del più alto modernismo russo, e, successivamente, per gli avanguardisti l’Achmatova era una conservatrice a tutto tondo; il suo stile rispecchiava quello dell’800:



Io sono mite, io sono semplice,
una «Piantagione», uno «Stormo bianco»…

È superfluo dire che questa semplicità inganna: «Dentro lo scrigno c’è un triplice fondo»; «Ma riconosco che ho usato inchiostro simpatico»: è la stessa Achmatova a mettere in guardia il lettore. I più grandi filologi russi hanno tentato di scoperchiare lo scrigno di questa «semplicità» e molti di loro (B. Eichenbaum, V. Vinogradov) vi hanno scovato «i trucchi del mestiere». In altre poesie l’Achmatova puntualizza sul «mestiere sacro»:



Il nostro mestiere sacro
esiste da mille anni.

Per l’Achmatova il termine «conservatore», nel suo significato più banale (che presuppone uno stare alla larga da ciò che è nuovo, un’insensibilità nei confronti di ciò che è nuovo, che implica un salvaguardarsi, un pessimismo storico, e di questo nell’Achmatova non vi è traccia) è invece qualcosa di molto forte, un atto nuovo: un atto artistico, etico e politico. Un atto di preservazione, per difendere ciò che è minacciato, e un atto di cura per ciò che ancora non è preservato. La forza di questo preservare è potente soprattutto negli anni in cui il principale impulso era quello di distruggere tutto «fino alle fondamenta, e poi» ricostruire «il nostro nuovo mondo». Il mondo dell’Achmatova non è «nostro», ma di Dio. Così era sin dai suoi primi libri, dove persino l’innamoramento (una cosa così assolutamente naturale e non ponderata) non risiede nelle mani della protagonista. Lei lo attende, così come si attende una buona notizia:



Tu, erba irrorata di rugiada,
porta una notizia, dona vita alla mia anima,
non per passione, né per svago,
ma per un grande amore terreno.

Nel periodo che seguì la Rivoluzione il tema della preservazione risuonò con maggior forza: Deus conservat omnia, «Dio preserva ogni cosa», era la massima preferita dalla poetessa, il suo leit motiv, il tema (se non addirittura il compito) e della sua poesia e della sua vita.

E noi ti conserveremo, lingua russa. 

Quando scrisse questi versi, durante la Seconda guerra mondiale, l’Achmatova dovette preservare tante cose, anche la lingua, e non solo dagli stranieri. Quando dice:

Io non sto con coloro che lasciarono dissacrare 
la terra ai nemici — 

non intende affatto «l’invasione degli stranieri».

Hanno profanato la Parola pura,
calpestato il sacro Verbo,
perch’io con le donne del ’37
lavassi un pavimento insanguinato.

Ossia, conservare quello che è stato distrutto, e quello che a ogni costo doveva essere eliminato dalla memoria di ogni cittadino:

I rimasti insepolti io li ho sotterrati.
Perché possano piangervi, 
la vita mi ha preservato.

La giovane Cvetaeva chiamava la giovane Achmatova la Musa del pianto. In modo inaspettato, con il tempo, queste parole fatidiche ebbero concretamente un senso. L’Achmatova divenne la musa piangente, forse l’unica, o in ogni caso una delle tantissime persone, fra milioni di persone, a cui venne tolto il pianto, il rito, la memoria. Quella stessa inaspettata concretezza aggiunse al destino dell’Achmatova la patina di una Musa con la corona di spine.

Un giorno ho detto a qualcuno
perché non mi fondo alla gente,
il carcere ha putrefatto il figlio,
hanno sferzato la mia Musa.

I simboli, le immagini, le figure retoriche, per l’Achmatova erano fatti. Tra le lapidi anonime, tra i nomi e le cose a cui è stato interdetto il ricordo, tra il carcere e la tortura, tra coloro che lei definisce, secondo la Bibbia, «inebriati di vino violento da bordello», all’Achmatova spetta conservare il piccolo, il fragile, quello che sorge:

Qualcuno, piccolo, ha cominciato a vivere.

L’Achmatova intende preservare la dignità della persona e del poeta, dignità che molti abbandonarono definitivamente, autoconvincendosi che non si poteva fare altrimenti e che «così fan tutti». Ma lei dice: «Non tutti». E ancora: bisogna preservare il legame vivo con tutto ciò che generò il genio umano, da Eschilo a T.S. Eliot, e tutto ciò che venne eliminato dalla cultura ufficiale perché «ideologicamente avverso». Preservare infine:

La freschezza delle parole e la semplicità dei sentimenti,

compito quasi impossibile in un periodo in cui domina una vita unicamente regolata dallo Stato, falsa e stagnante. Per lungo tempo, fin oltre la sua morte, le poesie dell’Achmatova in Russia vennero pubblicate in forma mutilata: omissioni, cambi di date, il tutto edito secondo una cronologia confusa. Solo con l’uscita dell’intero corpus siamo riusciti a distinguere l’intero percorso dell’Achmatova e vedere con quale forza si era raccolta questa «manciata di poesie singolari». 

In lei abbiamo visto il poeta della storia in primis, forse il primo testimone della letteratura di questi decenni che ha conservato nella cronaca una chiarezza di sguardo:

E sarà per le genti, 
come al tempo di Vespasiano.

Furono in pochi ad aspettarsi una tale ampiezza dai primi libri dell’autrice, dalla «Saffo russa», la cui audace e insolita lirica amorosa ebbe immediata eco e venne imitata così maldestramente:

Ho insegnato alle donne a parlare. 
Ma mio Dio! Come obbligarle a tacere!

Anna Achmatova, testimone della storia, nazionale e mondiale, ha portato avanti quello che forse è l’asse portante della letteratura russa. Com’è noto, la cronaca è il primo genere letterario della Russia antica. Si comincia a narrare dalla creazione del mondo. Una narrazione sui tempi antichi, il racconto di quello che avvenne di fronte agli occhi del cronista, raccontato secondo questa prospettiva: dalla Creazione del mondo fino al Giudizio finale. Il verso preferito dall’Achmatova: «nel mio principio è la mia fine» (scritto per la prima volta da Guillaume de Machaut, in francese antico, e poi ripreso da T.S Eliot in inglese) ben s’inserisce in questo contesto. La storia, vista come dal futuro, è sempre stata un punto fermo per gli scrittori russi: per Puškin, per Tolstoj, per Solženitcyn. In questo Libro della Storia, l’Achmatova registrò una parola colma di dignità e di compassione, frutto degli anni del Dolore. Ciò era emerso profeticamente sin dalle sue prime poesie:

La mia via è di gloria e sacrificio.

Pur essendo questo solo un accenno di ciò che si potrebbe dire su Anna Achmatova, la vocazione storica, la vocazione alla storia è forse la linea più forte della sua poesia, come una sottile linea rossa che corre lungo il suo destino. Non ebbe dubbi sulla giustezza dei posteri, i quali avrebbero visto tutto quello che avrebbero visto i contemporanei se non avessero avuto paura e se i loro occhi non fossero stati velati dalla nebbia intellettuale.

Solo i vostri figli
Dopo di me vi malediranno.

E qui arriviamo a un fatto inaudito e doloroso. I «figli» (o adesso già nipoti) non maledicono affatto i tormentatori dell’Achmatova, al contrario, con inspiegabile vigore, lavorano alla «detronizzazione del suo culto». La letteratura antiachmatoviana continua a produrre articoli, libri. Forse «il tempo di Vespasiano» non è ancora finito? «Detronizzare» l’Achmatova, lei che non ha mai preteso per sé nessuna corona, lei che, come tutte le anime alte, guardava ai propri limiti e alle proprie debolezze:

Fermati! Anche io ero come tutti, 
e peggio ero di tutti.

E come tutti i credenti chiamava questo «peccato» e, assurdamente, «peccatrice» si definiva lei.

Olga Sedakova è una delle voci più alte della poesia contemporanea russa. Nata a Mosca il 26 dicembre 1949, si laurea nel ’73 nella facoltà di Lettere dell’Università statale della sua città dove tuttora insegna. Fino agli anni 90 in Russia i suoi versi circolavano solo clandestinamente, in copie dattiloscritte o grazie all’editoria straniera. L’uscita del suo primo libro di poesie, Vrata, okna, arki (Porte, finestre, archi) è del ’86 grazie alla francese Ymca Press (la casa editrice fondata dagli emigranti russi, prima negli Stati Uniti poi a Parigi, che pubblicava tutta la letteratura proibita nell’Unione Sovietica). Traduttrice di poesia antica e contemporanea (Orazio, san Francesco d’Assisi, Dante, Petrarca, T.S. Eliot, Ezra Pound, Victor Hugo, Rilke), saggista, scrittrice per l’infanzia, insegnante, la poetessa ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio Schiller, il titolo di Cavaliere della Repubblica francese, il Premio Puškin, quello della Fondazione Solženicyn e quello della Santa Sede per «Le radici cristiane dell’Europa». Le sue opere sono tradotte in tredici lingue. In Italia sono disponibili Solo nel fuoco si semina il fuoco (Edizioni Quiqajon, 2008), Apologia della ragione (La casa di Matriona, 2009), Elogio della poesia. Versi e saggi di Olga Sedakova (Aracne, 2012). Altri suoi versi sono stati pubblicati nel volume Incarnazioni: poesia del corpo, corpi di parole, nella sezione «Poeti russi», a cura di Annalisa Alleva. 

Anna Andreevna Gorenko, in arte Anna Achmatova, nasce a Bolšoj Fontan, elegante sobborgo di Odessa, il 23 giugno 1889. La sua prima poesia è del 1907, pubblicata sulla rivista «Sirius», edita a Parigi da Nikolaj Gumilёv, il poeta che divenne suo marito nel 1910. La sua prima raccolta di poesie è del 1912, Sera. Seguono: Rosario (1914), Stormo bianco (1917), Piantaggine (1921), Anno Domini (1922). Da Gumilёv, da cui ebbe un unico figlio, Lev, divorziò nel 1918. Il 1917 in Russia è l’anno della Rivoluzione d’ottobre: cade la monarchia dei Romanov e si instaura il partito bolscevico, guidato da Lenin. Nel 1921 Gumilёv viene fucilato dal regime, accusato di aver preso parte a un complotto monarchico. È il primo di una serie di tragici eventi che occorsero nella vita della poetessa. Del 1938 è l’arresto di suo figlio Lev, reo di portare il cognome del padre. Fra il 1939 e il 1940, dopo una lunga pausa, la poetessa compone Requiem. Il poema viene pubblicato solo nel 1963 a Monaco di Baviera e successivamente, molto dopo, nel 1987, in Russia. Nel 1964 Anna Achmatova è a Taormina, dove riceve il premio internazionale Etna-Taormina. Nel 1965 è in Inghilterra per ricevere la laurea honoris causa in letteratura, conferitale dall’Università di Oxford. Muore a Domodedovo, vicino Mosca, il 5 marzo 1966.

Al di là di ogni avvenimento storico, politico, personale, più o meno doloroso, con cui ogni uomo è chiamato a scontrarsi, quello che emerge in poesia è il distillato di quel tempo e di quella storia che il poeta è chiamato a vivere. Il tempo di Anna Achmatova prima, e quello di Olga Sedakova poi, è stato abbracciato dallo stesso Paese, la Russia, i cui eventi storici del ‘900 forse non hanno avuto uguali. Un Paese che da sempre ha tentato di arginare la libertà del suo popolo, forse per via della sua vastità. Quanto più qualcosa è vasto, tanto più vasto è il desiderio di volerlo controllare, tanto più vasta è l’imponderabile conseguenza che da questa vastità può nascere. Così è per la poesia, in questo caso, russa. L’articolo della Sedakova sull’Achmatova, non mira a elogiare la vita dell’Achmatova, il suo talento poetico, il successo della sua poesia, ma sottolinea che c’è qualcosa che non muore, che rimane sempre, tra gli interstizi della storia, in mezzo al più profondo dei dolori e delle gioie, e più oltre, fino all’alba della poesia antica, ed è qualcosa che dà voce al visibile: «È un atto di preservazione, per difendere ciò che è minacciato, e un atto di cura per ciò che ancora non è preservato». L’articolo è stato pubblicato nel giugno 2014 sulla rivista cristiano-ortodossa Pravmir, a cento anni dalla nascita dell’Achmatova.

Isabella Serra