Il primo pensiero suscitato dalla maestria stilistica e dalla potenza dell’analisi dell’autrice è che Edith Wharton avrebbe potuto essere un’ottima antropologa: infatti, descrive, la buona società americana, il bel mondo della New York dell’altissima borghesia, i riti e gli idoli dell’élite statunitense con un’acutezza di sguardo, con una capacità di penetrazione psicologica, quasi con una freddezza da entomologa che non hanno eguali. La madre protagonista del racconto è Kate Clephane, che troviamo, nelle prime pagine, impegnata nella sua abituale giornata in Riviera, là dove si è rifugiata nel 1916 dopo che, diciotto anni prima, ha abbandonato la famiglia, il marito e la giovanissima figlia Anne, per fuggire con un altro uomo. Conclusa dopo poco tempo quell’avventura, ma ormai persa ogni rispettabilità sociale, e, soprattutto, ogni possibilità di riprendere i contatti con la figlia, Kate ha passato anni conducendo l’esistenza di tanti americani sradicati in terra europea: è infatti costretta ad  vivere in un demi-monde di vecchie marchese decadute, di giocatori d’azzardo, di ecclesiastici fondatori di circoli di beneficenza e di personaggi variopinti. E, insieme, non fa altro che sperare che Chris, l’uomo incontrato — e molto amato — dopo la prima relazione che l’aveva allontanata dalla famiglia, le scriva ancora una volta, che le chieda di rivederla. Chris è stato, per la signora Clephane, l’incontro che può segnare indelebilmente un vita: tanto che “a ricordare gli anni seguenti alla separazione dalla figlia, si soffermava quasi immancabilmente all’episodio di Chris” (p. 21), benché questo amore possa essere giudicato inappropriato secondo la morale del tempo, in primo luogo perché l’uomo è più giovane di Kate di quasi quindici anni.



Invece, il telegramma che Kate riceve una mattina, nel suo modesto albergo in Costa Azzurra è della figlia Anne: ormai adulta, una volti morti sia il padre che la nonna, la matriarca severa che aveva tenuto Kate lontana dalla figlia, la ragazza vuole che la madre torni a vivere con lei, a New York. La signora Clephane, così, per qualche mese, assapora i piaceri, le soddisfazioni, le consolazioni di rientrare nell’ambiente da cui proveniva, del godere — così crede — dell’affetto della figlia, diventata una ragazza bella e severa, con ambizioni artistiche, e recupera la stima e la familiarità di quanti non avevano mai smesso di cercare di propiziare il suo ritorno in famiglia, fra i quali Fred Landers, amico di famiglia e tutore di Anne. 



Nella sua nuova condizione, la signora Clephane ha modo di fissare uno sguardo assai perspicace sui giovani nati e cresciuti nell’ambiente di Anne; e qui emerge tutta la spietatezza propria di Edith Wharton, capace di un’esattezza così tagliente da non fare sconti a niente e a nessuno: “Pur tuttavia, cosa c’era da osservare? Ancora una volta la monotonia della Faccia Americana la catturò con tutta la sua innocente uniformità. Quante ce ne volevano, di quelle facce, per formare un solo individuo? Erano quasi tutte come le infinite miglia che separano due stazioni ferroviarie. Con crescente meraviglia, si rese nuovamente conto che si può essere giovani e belli, sani ed entusiasti, pur essendo incapaci, a partire proprio da quegli elementi così ricchi, di sviluppare una personalità. I suoi pensieri tornarono ai volti usurati che avevano popolato la sua precedente vita. Conosceva ogni piega di quell’usura, ma adesso, per la prima volta, pareva accorgersi che era frutto delle emozioni e della passioni, per quanto egoiste, per quanto indecenti, e non solo dell’acqua gelida e della dispepsia. “Da quando gli americani hanno smesso di avere la dispepsia” rifletté “hanno perduto la sola cosa che li rendesse espressivi” (p. 84).



Gli usi, i costumi, i riti sociali di quella che potremmo definire una “tribù di lusso” (ovvero il milieu dei ricchi newyorkesi discendenti per larga parte dai primi coloni olandesi) vengono radiografati, sviscerati con lo sguardo obiettivo e scientifico che l’autrice sa rivolgere sul cuore dei suoi personaggi come pure sui loro atteggiamenti morali. Ecco per esempio che la personalità di Chris, che pure è stato il grande amore di Kate, e per il quale la protagonista nutre ancora dei sentimenti, viene così raggelantemente colta, quasi si trattasse una farfalla bloccata per l’eternità sul puntaspilli da parte di un attento entomologo: “Povero Chris! Non che fosse un ‘dissoluto’, ma aveva un assurdo bisogno di emozioni; non faceva che ripeterle che un artista deve provare emozioni. Lei trovava difficile conciliare quel che per lui era uno stimolo con gli altri suoi gusti e le altre sue idee, con quell’arguto gioco dell’intelligenza che la tratteneva in un’aria mai respirata prima. Esser capace di quei giochi della mente, di quei voli di fantasia, e nonostante ciò avere bisogno del gioco d’azzardo, dei casinò, delle compagnie chiassose, di tutte quelle attività inventate per ammazzare il tempo proprie delle persone letargiche e senza fantasia!” (pp. 23-24).

E anche se con la sua protagonista, Edith Wharton non fa sconti, di nessun tipo, a partire da quelle operazioni di cosmesi linguistica, a volte necessarie per la pura sopravvivenza, che spesso ci si impone da sé: “Sì, era trascorso parecchio tempo (…) da quando aveva ‘perso’ Anne: ‘perso’ era l’eufemismo che si era inventata (così come gli Antichi chiamavano ‘Benevole’ le Furie) perché una madre non può confessare, nemmeno alla parte più intima di sé, di avere abbandonato volutamente la figlia” (p. 21). 

Non si arriva qui alla spietatezza, mista di crudeltà e insieme di compassione, con cui l’autrice esplorava l’animo e i pensieri di Lily Bart, la sfortunata protagonista della Casa della gioia, una ragazza da marito (pertanto paragonabile a un oggetto di lusso, bello, fragile e costoso, da piazzare, prima che si deteriori irrimediabilmente, all’acquirente più ricco), la quale, per sopportare senza impazzire la sua precaria condizione, sempre esposta alla mercé dell’approvazione sociale e morale del suo milieu, deve mentire sempre, anche fra sé e sé, ragion per cui Lily “era sempre attentissima a salvare le apparenze di fronte a se stessa. La sua raffinatezza aveva un corrispettivo morale, e quando faceva un giro d’ispezione nella sua mente, c’erano sempre porte che stava ben attenta a non aprire” (La casa della gioia, Neri Pozza, 2014, p. 124). 

Insieme ai personaggi in carne e ossa, però, c’è un altro non meno importante actor nel romanzo: la casa dei Clephane, la dimora austera e monumentale, segno tangibile della loro opulenza (quella ricchezza che Anne, per un certo periodo, crede rappresenti l’unico e vero ostacolo al suo matrimonio con Chris), testimone delle passioni, dei dissensi, dei rancori del passato: a questa enorme magione, come a tutte quelle degli amici e parenti dei Clephane, Edith Wharton dedica acute annotazioni, come del resto si conviene all’autrice di The Decoration of House, 1897, scritto a quattro mani con Ogden Codman come atto d’accusa contro il conformismo dell’America di fine secolo che si esprimeva in scelte stereotipate ed imitatrici dei modelli europei.

 La casa dei Clephane, i ricordi di Kate che rammenta l’ultima volta che varcò il suo austero portone per fuggire con l’amante, la camera di Anne, singolarmente vivace, il suo nuovo atelier di pittura, fresco ed essenziale, l’eleganza dei saloni da ballo, i grandi lavori di ristrutturazione che una giovane moglie può dolcemente imporre al nuovo, anziano marito: tutti questi particolari non sfuggono all’occhio attento di Edith Wharton, che li registra con scrupolo quasi notarile quali elementi distintivi di una classe sociale e di un particolare modo di vivere.

La povera signora Clephane, dopo i primi, beati mesi a New York, si trova ben presto a fronteggiare un dilemma morale terribile: si rende infatti conto che la figlia è innamorata e progetta di sposarsi proprio con Chris, che, dopo essersi coperto di gloria in guerra, coltiva le sue ambizioni letterarie lavorando come segretario di un milionario bibliofilo e filantropo. Nessuno a New York ha mai saputo di lei e Chris, per cui la donna si trova in una situazione angosciantissima; riesce per un certo periodo a convincere il giovane ad abbandonare la figlia, ma, in seguito, oppressa dalla sensazione sempre più chiara di essere come un’ospite in quella che era stata un tempo la sua casa, e di non poter comunicare veramente a nessuno il suo segreto, dopo il matrimonio di Anne e Chris si rifugia  nuovamente in Europa, non senza aver rifiutato la generosa proposta di matrimonio di Landers, da sempre innamorato, nemmeno troppo segretamente, della donna. 

L’ultima pagina del romanzo ci mostra così la “ricompensa” cui accenna il titolo, che spetta ad Anne dopo tanto penare: “E quel pomeriggio, quando rincasò e trovò la sua [scil. di Landers] lettera settimanale (…) l’avrebbe benedetto, di nuovo, l’avrebbe benedetto per aver scritto la lettera, e per averle dato la forza di non cedere alle sue suppliche. Forse nessun altro avrebbe mai capito, certamente lui non avrebbe mai capito se stesso. Ma le cose stavano così. Nulla le sarebbe più stato d’aiuto in questo mondo — per cancellare i vecchi orrori e la nuova solitudine — quanto il fatto di essere in grado di non cambiare idea sulla decisione presa, di essere capace di dire a se stessa, tutte le volte che cominciava a scivolare verso nuove incertezze e  nuove concessioni, che almeno una volta era stata irremovibile, riponendo in un piccolo spazio di luce e di pace la cosa più bella che le fosse mai capitata”.

Scritto in una prosa emozionante per capacità introspettiva e ricchezza nella gamma di sfumature, con un linguaggio capace di dire i fatti, anche i più scabrosi, difficili, in forma semplice e diretta, non volgare e nemmeno scioccamente allusivo, ma elegante ed essenziale, La ricompensa di una madre presenta quindi uno studio di psicologia femminile che ci presenta, dopo le passioni vorticanti della gioventù, la vera ricompensa e la vera pace cui può ambire una donna: il singolare e raffinato piacere della rinuncia.