A Péguy la accomuna la categoria di avvenimento; a Tolkien la capacità di ricreare un mondo con i suoi infiniti dettagli. Con Flannery O’Connor condivide l’irruzione in pagina della Grazia, scandalosa e salvifica insieme. Stiamo parlando di Elena Bono, artista scomparsa a Lavagna (Genova) il 26 febbraio 2014, considerata dalla critica che l’ha conosciuta “una delle scrittrici più importanti del secondo Novecento”. Il giudizio non è avventato, se già al suo esordio artistico, nel lontano 1956, il più che autorevole Emilio Cecchi ne esaltava senza indugio alcuno le doti artistiche.
Elena Bono (nata a Sonnino, in provincia di Latina, nel 1921, ma ligure di adozione) ha speso tutta la sua vita per tradurre in parola (poetica, teatrale, narrativa) l’avvenimento di Gesù, il suo continuo dialogare con il cuore mancante dell’uomo, il suo essere agnello pasquale di croce e resurrezione, il suo offrirsi come riscatto e misericordia a dispetto di qualunque peccato o inadeguatezza umani. L’esplicito tema religioso non faccia pensare però a una deriva apologetica, a un’arte ridotta al rango di propaganda da sacrestia. Elena Bono ha solcato i cieli alti dell’arte letteraria, riproponendo instancabilmente il dramma dell’uomo di fronte all’enigma della vita.
“Farsi un cuore semplice, come potrebbe averlo un ladro… non so… un centurione”. È la soluzione, rivoluzionaria in sommo grado, che la vedova di Ponzio Pilato, al secolo Claudia Serena Procula, propone al suo interlocutore, il vecchio amico e filosofo Seneca, in un dialogo-confessione che dura un’intera notte. Siamo a Roma, nella villa all’Esquilino dove abita il famoso senatore e dove la vedova di Pilato arriva dietro suo invito. Le domande sul Nazareno e sugli (atroci, secondo Seneca) misteri a lui legati sono inevitabili, e nel climax della narrazione, l’anziano filosofo si trova di fronte all’inaudita pretesa di Claudia: per accettare che Gesù Cristo sia il Figlio di Dio, e che sia risorto dopo esser morto in croce, occorre avere un cuore semplice come quello di un ladro, o di un centurione (non propriamente degli intellettuali).
Il romanzo si intitola La moglie del Procuratore (Marietti, Genova 2015, pp. 208), e narra appunto la vicenda della moglie del tribuno militare e procuratore di Giudea Ponzio Pilato. Il lungo racconto è tratto dalla raccolta originaria Morte di Adamo, pubblicata da Garzanti in quel lontano 1956 e che tanto clamore suscitò intorno alla figura dell’allora trentacinquenne scrittrice, giovane emergente insieme a un’altra promessa di nome Pier Paolo Pasolini (il suo personaggio di Salomè ne Il Vangelo secondo Matteo deriva direttamente da un testo della Bono).
A più di cinquant’anni di distanza, e dopo che una piccolo editorie locale (Le Mani, Recco-Genova) ha tenuto accesa la fiammella editoriale, Marietti raccoglie in qualche modo il testimone e pubblica ora in forma autonoma il lungo racconto capolavoro. L’iniziativa avviene a un anno esatto dalla scomparsa della scrittrice, in contemporanea all’uscita, sempre per i tipi di Marietti, di una miscellanea di saggi a lei dedicata (Quando io ti chiamo, a cura di Francesco Marchitti, pp. 154).
La doppia uscita segna un nuovo inizio intorno alla figura della grande artista: da un lato sancisce nei fatti il suo ritorno nei circuiti dell’editoria da vasto pubblico; dall’altro speriamo rappresenti l’avvio di quel processo di canonizzazione artistica che la collochi finalmente nel posto che le appartiene di diritto, tra i classici della letteratura italiana del Novecento.
Oltre alla già citata silloge, la produzione artistica di Elena Bono si compone di diverse raccolte poetiche (esordì come scrittrice nel 1952 presso Garzanti con la raccolta in versi Galli notturni), e di numerosi drammi teatrali (oltre a La testa del Profeta, dove appare la già citata Salomè, ricordiamo anche La grande e la piccola morte incentrata su Giovanna d’Arco e Flamenco Matto, dramma sulla figura di don Giovanni Tenorio). Le sue prose sono state portate in scena da registi quali Ugo Gregoretti, Pino Manzari e Salvatore Ciulla, e interpretate da attori quali Claudia Koll, Massimo Foschi ed Eros Pagni.
Tutta la produzione artistica di Elena Bono arriva al lettore come un risveglio della coscienza, quello svelamento di sé che avviene nell’incontro con i grandi artisti. E accade nella forma di una presa di consapevolezza, di un essere portati a ritrovare dentro sé quella dimensione per cui le cose acquistano senso e significato. Come dice la stessa Elena Bono con il verso che più di tutti riassume la sua intera produzione poetica: “così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare”.