Mi è capitato tempo fa di fare visita a un vescovo. Non è esperienza di tutti i giorni, e si entra sempre con un certo rispettoso timore nei palazzi eleganti, quasi sempre di nobile origine antica, dove abitualmente, almeno nelle nostre terre di cristianizzazione remota, i nostri pastori hanno fissato la loro residenza, a fianco della cattedrale che è la madre del popolo di fedeli di cui sono stati messi a capo.



In ogni palazzo vescovile che si rispetti, il cuore pulsante della casa non è (non dovrebbe essere) l’insieme degli uffici di curia, l’apparato delle segreterie, il labirinto dei locali in cui si riuniscono le commissioni e si riceve in udienza. Discretamente protetta dall’accesso indistinto del pubblico, in un’ala più appartata o ai piani alti dell’edificio non può mancare la cappella privata di chi lo abita. Il vescovo ha qui il suo spazio riservato per la preghiera liturgica più quotidiana: è il recinto dall’esterno invisibile in cui la recita dell’ufficio delle ore e la celebrazione del sacramento si snodano nella cerchia dei più stretti collaboratori che, intorno a lui, costituiscono il nucleo della sua “famiglia”.



Nella circostanza a cui alludevo all’inizio, la visita non poteva mancare di portarci fino a questo spazio più interno e più silenzioso. Con inaspettata sorpresa finale: in un angolo dell’aula decorata di immagini e di segni preziosi di devozione, in bella vista sull’inginocchiatoio, una corona del rosario stava lì a indicare che in quella casa vigeva l’abitudine di dedicarsi a una pratica che esula ampiamente dalle pure mansioni di governo di una struttura ecclesiastica.

Forse non è giusto indulgere a letture troppo ottimistiche. Ma da allora mi sono convinto che quella umile corona, deposta nel luogo della massima concentrazione sulla coscienza di sé, davanti all’altare, dove l’uomo come tale si piega aderendo a una Presenza che si impone al di là del fragile schermo dei simboli in uso nel culto cristiano, era il segno fisico chiamato a testimoniare quale può essere la vera sorgente di ogni autorità nella Chiesa. La parola che insegna e che guida, se non emerge dal profondo di un lavoro incessante sull’io, che parte dal segreto del proprio cuore e della propria memoria, perde inevitabilmente lo spessore delle sue radici. Al contrario, la vita nel suo insieme ritrova il suo calore e tutta la sua luce attraente quando passa attraverso la carne e scaturisce dall’atto fondamentale dello stare davanti al Mistero che parla edificando lui per primo il corpo vivo degli amici che si affidano alla sua carità senza limiti. 



All’inizio di tutto, nella Chiesa c’è il silenzio dell’accogliere il dono. Ci sta un invito, la mano tesa che risolleva dalla polvere della strada e rimette in cammino. È dalla cura di questo silenzio pieno di volontà di immedesimazione che nascono un pensiero autentico e una parola viva. Ed è per questo che sempre quel vescovo amico poi sottolineava che non ci potrà essere una vera “riforma” nella Chiesa dei nostri tempi moderni se non a partire da una nuova fioritura di santità.

Le vie della santità sono sempre state storicamente molteplici. Il suo miracolo matura in tante pieghe diverse, si colora di linguaggi irriducibili a un unico schema obbligato. Ma è difficile contestare l’idea che il retroterra di qualunque santità non sia lo scendere fino alla massima profondità del dialogo con il Tu che fa essere tutte le cose, a cominciare dalla povera cosa del proprio io. Non è detto che si parta sempre da qui, o che questo primato dell’essere presente di sé a sé stessi sia per forza di cose teorizzato in forme programmatiche esplicite. Ma per questa porta stretta si finisce prima o poi sempre per transitare, anche dal cuore delle esperienze più travolgentemente proiettate verso l’apertura indiscriminata alla passione della carità e allo slancio della più ardente missione planetaria. La santità fa riecheggiare nel mondo il silenzio del Mistero che salva. Lo rende eloquente, più facilmente decifrabile. Per questo la santità ha molto a che fare con il silenzio. Ha bisogno di riempirsi anche di voci, di mettere in movimento le mani, le teste e i corpi delle persone, ma non può camminare da sola, come si capisce bene accostando i luoghi abitati dai professionisti della cura del silenzio nella vita cristiana del nostro tempo: il loro sacrificio impressiona perché sale da una intensità da cui siamo stati strappati, e rimanda alla nostalgia di una verità del cuore che forse non dipende tanto dalla quantità delle ore sottratte al resto degli impegni della vita, ma dalla qualità di uno sguardo, dalla sincerità di una posizione che vuole andare alla radice invece di fermarsi alla periferia dell’esistenza da cui ci ritroviamo avvolti.

Nella frenesia caotica del rumore permanente, dominata dal febbrile parossismo del fare su cui avanza il nostro progresso moderno, anche l’Occidente secolarizzato non riesce a estinguere la sete di assoluto che si esprime nell’attrazione del fascino del silenzio, dietro la quale si profila il bisogno spesso inconfessato di reincontrare una forma di vita umana resa nuova dal fiorire prepotente della santità. Se le vie di pellegrinaggio ai grandi santuari mariani e alle tombe dei santi più venerati restano affollate di persone, oggi come ieri, in perenne e spesso ansiosa ricerca, si capisce più facilmente come mai i libri che insegnano l’arte del silenzio possono diventare a volte veri e propri successi, anche sul piano del mercato editoriale internazionale.

È stato questo il caso, negli ultimi anni, dei testi, fortunatissimi, del sacerdote spagnolo Pablo d’Ors, tradotti in diversi altri paesi. Da noi è stata Vita e Pensiero a prendersi la cura di offrire al pubblico italiano il succoso resoconto di un’esperienza vissuta in prima persona e riproposta dall’autore come ipotesi di un itinerario riproducibile per via di imitazione: la traiettoria disegnata è quella, certamente impervia, esigente ma allo stesso tempo invitante, di un ritorno al centro più sostanziale dell’io interpretato come un apprendistato iniziatico, attraverso l’esercizio metodico di un rientro in sé stessi nutrito anche dai modelli della spiritualità orientale extracristiana (Biografia del silenzio, 2014).

Un altro caso editoriale molto significativo è la scelta di contenuto dell’ultimo, piccolo libro che ci ha lasciato uno dei massimi esperti della tradizione del linguaggio religioso del cristianesimo medievale e moderno di area italiana: il padre cappuccino Giovanni Pozzi. Il volumetto si intitola Tacet, ed è stato riedito postumo da Adelphi nel 2013. È uno scavo sui fondamenti della pratica del silenzio coltivata nella storia della spiritualità, portando fino alle sue estreme radicalizzazioni quella “cura del sé” che, da un certo punto in poi, è stata definita elaborando il vocabolario della mistica, dalla cristianità più antica trasmesso in eredità alle nuove forme, non prive di squilibri e rischi di unilateralità, che l’esperienza mistica ha conosciuto nelle sue evoluzioni dei secoli a noi più vicini.

In effetti, come avviene anche nel “manuale” del d’Ors, il discorso sul silenzio può finire con lo spostarsi sulla questione del metodo. Ma il metodo può ridursi a una tecnica. E la tecnica, se applicata in modo schematico o fraintesa, può anche separarsi dai contenuti a cui dovrebbe essere funzionale. Oggi si parla molto di silenzio: ma silenzio intorno a che cosa? Si rischia di sorvolare sul dato oggettivo del “fatto” di cui il silenzio, se vuole essere un silenzio cristiano, dovrebbe concepirsi come una porta di ingresso. Senza un Tu di cui mendicare il volto, senza lo stare davanti a un Altro che ci raggiunge, ci interpella e ci chiama a seguirlo, si scivola nella pratica psicologista dell’interiorità da indirizzare non si sa bene a quale fine; ci si sposta sul terreno delle terapie consolatorie per il benessere. Il silenzio di cui abbiamo più bisogno non è quello che si svuota per offrire il proprio nulla al Tutto di una infinitezza senza fondo, per lasciarsene riassorbire e tornare all’innocenza di un’origine perduta. Sarebbe la strada di una “serenità” ecologica e pacifista, accaparrabile a buon mercato — come vedo scritto sul calendario del mese di marzo appeso nella mia cucina — con il semplice “ascoltare tra piante e cespugli la voce del vento e sentirsi così parte dell’universo” (frase di Anonimo). 

Ben altra cosa è il silenzio che si apre in umile accoglienza ospitale dell’Assoluto che ci è venuto incontro, di sua iniziativa, con una rivelazione prima di tutto da riconoscere, in cui identificarsi lasciandosene trasformare. Il gesto essenziale qui diventa misurarsi con una presenza che c’è e si manifesta, venendoci incontro. Ci viene incontro nel modo documentato nei libri dei due Testamenti, passando per la forma assolutamente inequivocabile dell’incarnazione del Dio fatto uomo che ci fa risorgere autoimmolandosi per noi dalle braccia della croce.

Il silenzio più fecondo e promettente è quello che si è invitati a coltivare seguendo la strada dell’immersione esistenziale nell’oggettività dell’evento di Cristo che ci salva, riaccadendo per noi, oggi, lungo la traccia segnata dall’amore che ci precede, sempre e nonostante tutto. Dalla “notte dell’abbandono” all'”incredibile notizia” del giorno di Pasqua, è quella che ci aiuta a ripercorrere Gianluca Attanasio con il suo L’amore che non muore. Meditazioni sulla passione di Gesù (Messaggero, Padova 2015).