Non è comune, al giorno d’oggi, in cui domina una cultura giuridica figlia del positivismo e dell’antropologia illuminista, ritrovare la semplicità — si potrebbe quasi dire l’ingenuità — di porsi da giurista delle domande come quelle che pervadono il presente volume (Guido Brambilla, Itinerari della giustizia, ndr), originale e, a un tempo, figlio di una riflessione che spazia dalla letteratura alla filosofia, dal diritto alla teologia. Per un giurista che non si limiti all’esegesi spesso arida della materia, gli argomenti in cui si addentra la riflessione di Guido Brambilla toccano il fondo, il fondamento dell’esperienza giuridica: il senso originario di giustizia che alberga nel cuore di ciascuno di noi, il diritto come riflesso dell’esigenza di relazioni non inquinate da interessi o da sentimenti aberranti, la natura dei diritti dell’uomo, sempre più numerosi e articolati fino all’esasperazione, oggi più che mai al centro dell’attenzione di tutta la società, che cerca in essi un brandello di felicità senza riflettere sulle conseguenze antropologiche e sociali delle infinite pretese derivanti dalla loro assolutizzazione. 



Tutte queste questioni sono così semplici che quasi non necessitano di essere introdotte; esse pescano in una evidenza che l’ampia documentazione contenuta in questo volume sostiene ma non fonda. Serve, invece, un confronto diretto tra il sé del lettore e il testo, una sollecitazione che si incontra ormai di rado in questo momento culturale segnato da infinite complicazioni, da convulsioni intellettuali e da siderali lontananze dal sé, dal soggetto, dall’uomo concreto che sono io, che sono i miei prossimi, i colleghi, gli studenti, i figli, i vicini. 



Riportare al centro del lavoro del giurista le domande fondamentali che muovono l’io e la società che egli genera, se mosso da queste domande o se censurandole, è forse oggi l’unico modo per ricostruire relazioni autentiche, non velate dall’appartenenza partitica o ideologica o moralista, relazioni che siano incontri veri, fondati sul piano della verità di sé e del proprio desiderio di bene, senza dei quali tutto si inaridisce sul piano sociale e diventa inefficace il tentativo di stabilire regole giuridiche riconosciute, capaci di garantire la pace sociale. 

Se ci si introduce così, se si sente da subito di essere protagonisti insieme all’autore di questa ricerca, allora la lettura sarà a sua volta un momento di incontro, e non solo con le domande che ne sorreggono la trama ma anche con tutti coloro che, come coro di una tragedia greca, sono chiamati a documentare la verità e il senso della domanda umana, dentro cui fiorisce la domanda sulla giustizia e sul diritto nella concretezza dell’esperienza di ciascuno. Un coro di personaggi di grande peso per la storia culturale del nostro Paese vive dentro le pagine di questo libro; si pensi — prima di tutto — al pensiero spesso ricordato di don Luigi Giussani, un pensiero fondativo di un uomo il quale certamente non amava l’esperienza giuridica soprattutto per come essa iniziava a pervadere il contesto sociale del nostro Paese, trasformando un clima ancora permeato dall’umano forgiato dalla tradizione cristiana in legalismo, giustizialismo, insorgenza di infinite pretese dimentiche dei doveri.



Eppure, pur dentro questo giudizio quasi impietoso, la riflessione di Giussani sul diritto e la giustizia muove a un approfondimento non più procrastinabile; se il senso del diritto subisce torsioni che lo muovono a diventare da fattore di ordine a mero strumento di potere, il contesto sociale subisce anch’esso conseguenze gravi di perdita di senso, di chiusura alla solidarietà, di contrattualizzazione di ogni rapporto e di ogni scambio o incontro mentre esso si sana se il senso di giustizia, la tensione alla misericordia, la percezione della gratuità divengono il motore della creazione e dell’attuazione della legge. E si sana, ci viene ricordato fin dall’abbrivio del volume, dentro l’esperienza di una educazione che sappia riconoscere le proprie domande ultime e che, nel campo del diritto, introduca alla chiara percezione che la giustizia non può essere l’esito della mera applicazione della legge ma passa attraverso il continuo interrogarsi sul senso della parola stessa e di come essa si connetta ai fatti, all’esperienza, al contesto in cui si vive, al Mistero di Dio. Un contesto che, di conseguenza, non può che essere concepito come infinito, esteso oltre il confine breve della materialità dell’uomo e del cosmo. 

L’altro grande maestro che rivive davanti ai nostri occhi mentre scorrono le pagine del testo è Benedetto XVI, la cui riflessione teologica si è a lungo cimentata con i temi qui ricordati, a partire dalla geniale definizione presente nel messaggio per la Quaresima del 2010, secondo cui «ciò di cui l’uomo ha più bisogno non può essergli garantito dalla legge; per godere di una esistenza in pienezza gli è necessario qualcosa di più intimo che può essergli accordato solo gratuitamente». La teologia della giustizia elaborata dai papi di questo e dello scorso secolo, alcuni già santi, è preziosa anche per il laico, densa com’è di equilibrio, di saggezza, frutto di una esperienza millenaria che fa della Chiesa una grande esperta di umanità. 

Il resto del coro è denso di persone, ciascuna col suo volto e con il suo contributo alla riflessione in atto: Dostoevskij, Manzoni, Milosz, Simenon, Lewis e molti altri ancora, tutti chiamati a ricordare al lettore che vi è una legge più grande della norma giuridica, una legge iscritta nel cuore dell’uomo, ma anche una natura umana che grida la propria domanda di giustizia e che deve anche fare i conti con un proprio limite strutturale, un peccato — termine così drammaticamente ridotto a freddo moralismo retributivo — e che invece potrebbe, se correttamente riconsiderato, fondare in sé e nell’altro il senso ultimo di una pietas, che a sua volta muove alla ricerca di un Altro, come ci ricorda Ibsen alla conclusione del Brand: «Rispondimi o Dio nell’ora in cui la morte mi investe, non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo a conseguire una sola parte di salvezza?». 

Il protagonista del diritto e della narrazione che ci viene posta dinnanzi è dunque l’uomo, con tutto il suo carico di esperienza e di esperienze, anche le più negative, le più tragiche, le quali tuttavia, almeno nella storia dell’Occidente, non sono state capaci di annullare del tutto il senso del Mistero cui l’uomo stesso si lega, nella buona e nella cattiva sorte. Si snoda così una storia, riletta nel volume per cenni ma con un interessante filo conduttore, una storia che utilmente ci viene riproposta come termine della nostra personale riflessione e come occasione per un approfondimento: la Grecia, Roma, il Medioevo, l’Umanesimo con la sua nuova antropologia fino all’età moderna, dominata dallo sfumare dall’orizzonte giuridico del grande termine dell’esperienza per centrarsi sulla coscienza individuale, cartesianamente concepita, «sorgente unica della conoscenza, del dominio delle cose e della norma etica». L’uomo resta ancora al centro ma è spesso lontano dall’altro uomo, è soggetto di se stesso, è singolo, coerentemente con l’epoca della singolarità, come è stata giustamente definita l’epoca post moderna. 

Di qui il passo, breve, verso il nihilismo giuridico e la giuridicizzazione di tutti i fatti della vita (nascita, morte, dolore, malattia…), non più dati all’uomo ma, tramite il diritto, governati dal potere. Con ciò la legge si tramuta, talora, nel suo opposto, visto che l’unico scopo che le viene riconosciuto è quello di garantire l’autonomia del singolo e della sua volontà: è il trionfo, nel lungo periodo, dell’onda lunga del volontarismo di Occam che si riflette nell’assolutizzarsi di ogni pretesa. 

Dopo essere stati condotti per mano lungo questo complesso percorso, il volume affronta in conclusione l’apice della riflessione, già preannunciata dal titolo: la questione antropologica, così cara a don Giussani da aver fondato su di essa tutta la sua preoccupazione educativa. «Chi è l’uomo perché Tu te ne prenda cura?», recita il salmo, espressione della domanda e della sapienza del popolo ebraico. Noi occidentali siamo tutti figli di questo afflato e abbiamo tentato nel corso dei secoli una costruzione sociale che dia risposta a questa domanda esistenziale (e non solo morale o giuridica); il diritto stesso ha in sé questo afflato né può dissociarsene pena la perdita del suo stesso senso, della sua stessa razionalità, di quella ratio senza della quale non vi è ius, non vi è regola né giustizia. 

Scoprire la profondità di se stessi e, a un tempo, la profondità delle cose e delle diverse esperienze sociali è una scoperta affascinante, capace di entusiasmare. La lettura di questo testo può guidare nella ricerca sia tutti coloro che col diritto hanno a che fare sia chi, laicamente, cerca soluzioni eque per costruire assetti sociali più coerenti con i fini positivi che devono guidare l’azione dei pubblici poteri e di quelli privati, oggi più che mai capaci di esercitare il dominio sulle relazioni umane e su quelle sociali. 

Tutto questo non viene insegnato, di norma: le radici profonde dell’esperienza giuridica restano sepolte o lasciate alla ricerca personale. Riportarle al centro delle proprie riflessioni, dentro lo studio delle norme, dell’interpretazione, della giurisprudenza, delle procedure e dei dati normativi, aiuta a guadagnare una serietà che va oltre la conoscenza tecnica dei meccanismi dell’esperienza giuridica stessa ma che è in grado di illuminarla rendendola più intelligente. È un invito al lavoro. 


Il testo pubblicato è l’introduzione dell’Autrice a Guido Brambilla, “Itinerari della giustizia. Appunti per una antropologia giuridica”, Guerini, Milano 2014.
Comincia oggi il ciclo di incontri del Centro Culturale di Milano  dedicato alla giustizia. Maggiori informazioni su www.centroculturaledimilano.it